⭕ L’umanità ideale in 5 passi… 1,2

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Lʼeconomia della ciambella di Kate Raworth – puntata 12, prima parte
Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo

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3a mossa, Coltivare la natura umana
Passare dall’Uomo economico razionale
a Esseri umani sociali adattabili

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L’umanità ideale in 5 passi… 1,2

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La scorsa volta abbiamo spiegato quanto sia importante definire nella nostra mente un’immagine precisa di ciò che vogliamo essere perché ciò determina ciò che diventiamo e, di conseguenza, come agiamo nella realtà.

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Ecco perché è essenziale che l’economia abbandoni come modello l’uomo economico e passi a considerare il genere umano nella sua complessità.

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Con questa prospettiva si potranno creare economie per prosperare e vivere nello spazio sicuro ed equo della Ciambella.

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Per creare la nuova immagine dell’umanità e lasciare la raffigurazione dell’uomo economico bisogna mettere in atto cinque cambiamenti dal momento che:

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1.siamo esseri sociali e riconoscenti (e non strettamente egoistici)

2.abbiamo valori fluidi (e non gusti fissi)

3.siamo interdipendenti (e non isolati)

4.siamo approssimativi (e non calcolatori)

5.siamo parte della biosfera (e non dominatori della natura)

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Bisogna tenere presente un aspetto rilevante in merito a questi cinque cambiamenti.

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Seppur si faccia riferimento a una gran quantità di esperimenti di psicologia comportamentale, le indagini risultano incomplete: gli studi sono condotti prevalentemente in paesi occidentali i cui ricercatori utilizzano “soggetti campione” che sono gli studenti delle loro stesse università.

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Questo vuol dire che le indagini danno una visione parziale del comportamento umano perché si basano principalmente sulla medesima appartenenza culturale che non corrisponde neppure alla maggioranza della popolazione globale.

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Ad oggi sono poche le ricerche che ci aiutano a comprendere l’origine così profonda della diversità di comportamenti tra culture e società.

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Joseph Henrich con la sua ricerca ci dice che i valori della cultura occidentale sono determinati e specifici piuttosto che universali o naturali.

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Per il suo lavoro –The WEIRDest People in the World* **– si è inventato l’acronimo WEIRD (Western, Educated, Industrialized, Rich and Democratic) ossia gente STRANA (occidentale, istruita, industrializzata, ricca, democratica).

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Possiamo però considerare come validi due presupposti.
Uno è che sicuramente la natura umana non corrisponde all’uomo economico razionale.
L’altro è che, fino a quando non vi saranno ricerche che diano una visione più completa dell’umanità che tenga conto di altre culture e organizzazioni umane, le cinque aree sopra descritte rappresentano fedelmente l’umanità occidentale.

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1. Da egoisti a socialmente riconoscenti

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Per capire questo aspetto della natura umana occorre risalire all’evoluzione dell’Homo Sapiens. Per motivi strettamente legati alla sopravvivenza, l’uomo si è evoluto come animale fortemente collaborativo. La capacità della nostra specie di comportarsi in modo prosociale può essere basata su meccanismi psicologici unici per l’uomo. Questi meccanismi includono la capacità di prendersi cura del benessere degli altri (preoccupazioni riguardanti gli altri), di “sentire dentro” gli altri (empatia) e di comprendere, aderire e far rispettare le norme sociali (normatività)* **.

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Nel DNA degli esseri umani vi è l’attenzione ai propri interessi ma esiste anche la propensione ad aiutare gli altri: caratteristiche che si traducono in attitudine alla condivisione e alla reciprocità.

Attraverso queste attitudini l’uomo ha sviluppato il commercio, a livello relazionale lo si vede dal semplice portare i bagagli di persone fragili a fare beneficenza o donando persino i propri organi.

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Per sopravvivere quindi abbiamo necessariamente imparato ad andare d’accordo e a collaborare*.

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Collaboriamo, però, a patto che la reciprocità sia rispettata altrimenti tendiamo a punire i trasgressori.

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Dare e avere: questi due elementi sanciscono un patto per garantire salda la cooperazione e la fiducia.
Nel mondo contemporaneo queste norme sociali, non a caso, sono utilizzate nei portali internet attraverso le valutazioni e/o le recensioni. Da un lato le aziende vogliono mostrare la propria reputazione per meritare fiducia e dall’altra gli utenti, attraverso le recensioni, manifestano la propensione umana a collaborare a difesa del “gruppo”.

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Come accennato il livello di reciprocità e le norme sociali variano tra diverse culture in base alla struttura dell’economia.

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Per chiarire quest’ultimo concetto facciamo un esempio.
I Nord americani vivono in un’economia di mercato marcatamente interconnessa e quindi è particolarmente alto il livello di reciprocità che diviene necessario per far funzionare l’economia.
Tale comportamento sociale è stato oggetto di studi sperimentali all’interno di tribù.

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I Machiguenga, un gruppo indigeno in Perù, soddisfano la maggior parte dei loro fabbisogni nell’ambito dei nuclei familiari con scarsi scambi con il resto della comunità.
Il risultato di questa struttura socio-economica, è che gli abitanti hanno sviluppato un basso livello di dipendenza comunitaria e quindi una scarsa propensione alla reciprocità.

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Al contrario è l’organizzazione dei Lamelara, una tribù in Indonesia la cui attività di sussistenza dipende dalla caccia alle balene che viene condotta in gruppi di una dozzina di uomini a bordo di una canoa.
L’esito della caccia è un successo collettivo determinato dal livello di cooperazione.
Inoltre, una volta instaurato un certo grado di fiducia, questa persiste ed esercita la sua influenza sulle relazioni economiche che si trasmette anche alle generazioni successive.

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I risultati delle indagini sul comportamento umano* condotte da Joseph Henrich fanno emergere che le norme sociali di reciprocità variano in funzione della struttura dell’economia generando implicazioni nei ruoli dei nuclei familiari, del mercato, dei beni comuni e dello Stato.

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2. Da preferenze fisse a valori fluidi

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Finora la teoria economica si è basata sul presupposto che le persone debbano avere gli stessi gusti a partire da quando si è bambini.

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La pubblicità forgia le menti sin dalla tenera età impiantando preferenze e desideri da soddisfare.

Gli adulti sono consumatori che hanno potere di acquisto e colmano preferenze già acquisite.

Ma com’è stato possibile tutto questo?

Dobbiamo risalire agli anni Venti e conoscere una delle figure più influenti del XX secolo: Edward Louis Bernays, geniale pubblicitario statunitense nonché nipote di Sigmund Freud**.

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Questo personaggio è stato uno dei padri delle moderne relazioni pubbliche, delle quali, già nei primi anni del Novecento, ne aveva teorizzato le principali regole fondanti.
Studiando gli scritti di suo zio Freud sui meccanismi di funzionamento della mente umana, Bernays ne riprese un concetto fondamentale su cui fondò il suo successo di pubblicitario: “c’è molto di più dietro la scelta di prendere le decisioni, non solo a livello individuale, ma soprattutto, a livello di gruppi”.

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“La manipolazione consapevole e intelligente delle abitudini e delle idee delle masse è un aspetto importante del funzionamento di una società democratica” scrisse nel suo libro “Propaganda”* pubblicato nel 1928.

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Formulò l’ipotesi secondo cui, più che le caratteristiche di un prodotto, influenzavano in modo incisivo le pubblicità che evocavano le emozioni inconsce delle persone tanto da guidare il comportamento delle masse.

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A lui si deve la tradizionale colazione americana con uova e bacon**. All’epoca ci fu un’intensa campagna pubblicitaria condotta per conto dell’azienda Beech-Nut packing Co, settore prodotti di carne suina.

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Nei suoi messaggi Bernays richiamava valori profondamente radicati negli americani, come libertà, potere benessere, associandoli a gusti o opinioni.

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Anche l’abitudine delle donne a fumare ci conduce a Bernays.
Nel 1928, George Washington Hill, Presidente dell’American Tobacco Company, intuì il potenziale che avrebbe potuto ricavare aprendo il mercato della sigarette alle donne e chiese aiuto a Bernays che studiò meticolosamente il suo piano.
Utilizzando lo slogan Torches of Freedom* ossia le “torce della libertà” indusse gran parte della popolazione femminile a fumare in un’epoca storica in cui era ritenuto inappropriato.

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Il fatto di poter fumare, come da copione, venne percepito come forma di liberazione per le donne, la loro possibilità di esprimere la loro forza e la loro libertà.

A partire dal 1980 Shalom H. Schwartz, psicologo sociale e ricercatore interculturale assieme ad altri suoi colleghi, condusse una lunga indagine su un’ottantina di paesi nel mondo.

Identificò un sistema motivazionale comune agli individui di tutte le culture che guida le scelte individuali.

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La ricerca, durata una decina di anni, si concluse con la formulazione de

La teoria della Struttura Psicologica Universale dei Valori** meglio nota come “La teoria dei valori”.

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Il sistema proposto da Schwartz è composto da dieci valori che vengono suddivisi in categorie che sono caratterizzate da similarità ma anche incompatibilità.

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Ne risulta una struttura di due dimensioni bipolari:

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Autotrascendenza comprende i valori di Universalismo e Benevolenza vs Autoaffermazione che comprende i valori di Edonismo, Successo, Potere;

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Apertura al Cambiamento che comprende i valori di Autodirezione, Stimolazione, Edonismo vs Conservatorismo che comprende i valori di Conformismo, Tradizione, Sicurezza.

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Questa scoperta quindi mette in evidenza tre punti:

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Il primo è che tutti i dieci valori sono presenti in tutti gli esseri umani e variano non solo da un individuo all’altro ma anche da una cultura all’altra;

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Secondo, ogni valore può essere attivato semplicemente se viene stimolato;

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Terzo, ognuno di questi valori cambia non solo nell’arco della vita di una persona ma nel corso di una giornata in base al ruolo e al contesto che ricopre un individuo.

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Da ciò si evince la complessità della natura umana che è ben lontana da quella ritratta con il modello dell’uomo economico razionale.

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Per conoscere meglio gli altri cambiamenti, non perderti la prossima puntata.

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Legenda relativa ai link:

* fonte citata nel libro “Economia della Ciambella”

** approfondimento suggerito da Culturaintour

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⭕ L’umanità ideale in 5 passi …3,4,5

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L’Economia della ciambella di Kate Raworth – puntata 12, seconda parte

Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo

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3a mossa, Coltivare la natura umana

Passare dall’Uomo economico razionale

a Esseri umani sociali adattabili

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L’umanità ideale in 5 passi… 3,4,5 

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Nell’articolo precedente ci si è resi conto di quanto sia complessa la natura umana che non può assolutamente essere rappresentata con il modello dell’uomo economico razionale.

Per passare a un nuovo ritratto dell’umanità nel XXI secolo sono necessari cinque cambiamenti.

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Due cambiamenti li abbiamo già visti e sono:

1. Da egoisti a socialmente riconoscenti

2. Da preferenze fisse a valori fluidi

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Ora proseguiamo.

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3. Da isolati a interdipendenti

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Raffigurare l’uomo economico razionale come individuo isolato e indifferente alle scelte degli altri è stata un’opzione funzionale alle teorie economiche classiche ma la natura umana ha la tendenza a uniformarsi e a essere condizionata dalle norme sociali.

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Oggi le persone sono sempre di più interconnesse in molti modi, soprattutto con i social media: una comunicazione così estesa genera un’influenza sociale che si traduce in comportamento collettivo.

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A questo proposito Matthew Salganik, Peter Dodds e Duncan Watts hanno condotto un esperimento su larga scala coinvolgendo ben 14000 giovani reperiti attraverso un sito web. 

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Lo scopo della ricerca era indagare l’effetto dell’influenza sociale sull’azione collettiva*. I ricercatori hanno proposto agli adolescenti un campione di 48 canzoni inedite per analizzare come si sarebbe giunti a una hit parade attraverso i loro gusti musicali.

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I 14mila partecipanti vennero suddivisi in due gruppi.

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Nel primo (chiamato gruppo di controllo) la classifica delle canzoni era basata su scelte individuali in quanto ognuno ignorava quale canzone veniva votata dagli altri. 

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Il secondo gruppo venne ulteriormente suddiviso in otto gruppi più piccoli chiamati “mondi”.

Questa volta i membri di ciascun gruppo conoscevano il voto dei compagni all’interno del proprio “mondo”.

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Il risultato?

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In tutti i gruppi sperimentali, la popolarità di ogni canzone dipendeva in parte dalla sua qualità e complessivamente in linea con il “gruppo di controllo” ma ogni “mondo” aveva creato una propria classifica influenzato da quello che facevano gli altri.

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Secondo gli autori buona parte della spiegazione può stare nel fatto che gli individui non prendono decisioni in modo del tutto indipendente, ma sono influenzati dal comportamento degli altri in modo imprevedibile, facendo passare in secondo piano l’elemento “qualità” del prodotti.

Questo vuol dire che la forza delle reti sociali modella le nostre preferenze, opinioni, acquisti e comportamenti tanto più le persone sono interconnesse. 

Questa interdipendenza potrebbe essere utilizzata per generare cambiamenti comportamentali in positivo.

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4. Dal calcolo all’approssimazione

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L’Homo Sapiens non possiede l’affidabilità dell’uomo economico razionale e questo lo affermò Herbert Simon, economista, sin dagli anni Cinquanta.

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Successivamente Daniel Kahneman e Amos Tversky, entrambi psicologi, furono pionieri dell’economia comportamentale, applicarono cioè la psicologia allo studio delle decisioni economiche degli individui ritenendo che la psicologia avesse un ruolo determinante nelle scelte delle persone.

Il programma di ricerca denominato  “Heuristics and Bias Program” aveva lo scopo di studiare come le persone prendano decisioni in contesti caratterizzati da ambiguità, incertezza o scarsità delle risorse disponibili**.

Nel 1974 pubblicarono “Judgment under Uncertainty: Heuristics and Biases” con il quale  introducevano il termine “bias Cognitivo” 

Emerse che gli individui prendono le loro decisioni utilizzando  euristiche (scorciatoie mentali), piuttosto che elaborati processi razionali (frutto di ragionamento lento, seguenziale e faticoso).

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Le euristiche di giudizio sono un meccanismo mentale residuo dell’evoluzione dell’Homo Sapiens che gli ha garantito la sopravvivenza e funzionano correttamente nella maggior parte dei casi. Tuttavia vi è una vasta gamma di euristiche che produce sistematiche distorsioni della realtà e sono i cosiddetti bias cognitivi.

I bias cognitivi hanno lo scopo di rendere l’essere umano “cieco” rispetto a certe informazioni per favorire rapidità e semplicità decisionali con la conseguenza che ci conducono a conclusioni errate della realtà.

Non a caso lo studio dei bias cognitivi è utilizzato nel mondo del marketing, della pubblicità e della gestione aziendale.

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Gerd Gigerenzer, psicologo evoluzionista, invece sostiene che “le buone intenzioni vanno oltre la logica” e che siamo sopravvissuti nel corso dell’evoluzione proprio grazie alle distorsioni cognitive.

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Per Gigerenzer gli economisti comportamentali “pensano che le persone non siano in. grado di comprendere il rischio e vadano indirizzate dalla nascita alla morte **.

Possiamo concludere – dice Kate Raworth – che le euristiche funzionano nei contesti  in cui si sono evolute. Per questo motivo tendono a non considerare un fenomeno inedito come i cambiamenti climatici che hanno la caratteristica di essere invisibili, graduali e con effetti a lungo termine.

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I politici dovrebbero quindi promuovere un cambiamento comportamentale avvalendosi di una combinazione efficace delle euristiche* basate sulla consapevolezza del rischio affiancata a incentivi comportamentali.

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5.Da dominanti a dipendenti

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Il filosofo inglese Francis Bacon nel XVII secolo scrisse “La razza umana recuperi quel diritto sulla natura che le appartiene per lascito divino” .

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Questa prospettiva ha sempre caratterizzato la cultura occidentale fino ai giorni nostri ma l’uomo, in realtà, non è al vertice della piramide della natura è strettamente connesso e dipendente dalle reti ecologiche.

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È grazie al periodo dell’Olocene –  l’epoca geologica che abbiamo ormai lasciato alle spalle con il suo clima stabile, abbondanza d’acqua dolce, lo strato protettivo dell’ozono e l’abbondanza di biodiversità –  se l’Homo Sapiens ha potuto evolversi e prosperare.

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Questo fa capire quanto l’umanità sia integrata nella biosfera e non a capo di essa.

C’è bisogno di un cambiamento culturale, di una nuova consapevolezza rispetto al ruolo che si è dato l’umanità, come ha spiegato l’ecologo americano, Aldo Leopold “da conquistatori della comunità terrestre a suoi semplici membri e cittadini**.

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Esiste un forte divario in merito alla relazione con la natura tra la popolazione STRANA – società industrializzate – e le comunità che vivono in centri rurali: la popolazione occidentale tende a rendere antropomorfo tutto il mondo vivente* **.

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Un primo passo è ridefinire il linguaggio.

Gli economisti ambientali per esempio descrivono il mondo vivente in termini di fornitura di “servizi ecosistemici” e di “capitale naturale” ma evocano le voci di asset di bilanci.

Per questo molti studiosi di economia invitano a trovare termini più efficaci per evidenziare la nostra interdipendenza con l’ambiente naturale.

L’esperta di biomimetica Janine Benyus ha deciso di descrivere diversamente la nostra relazione con il mondo:  parla della Terra come di “questa casa che è nostra ma non solo nostra”.

Le parole giuste aiutano a modificare il nostro rapporto con la natura e ci consentono di avere l’atteggiamento idoneo per incamminarsi verso un futuro prospero in armonia con la Terra.

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Con questo articolo abbiamo imparato che l’umanità è interdipendente sia come specie che come parte di un ecosistema naturale complesso e vulnerabile.

Lo stesso comportamento umano è estremamente complesso e imprevedibile per questo è necessaria la piena consapevolezza che servino profondi cambiamenti nel nostro atteggiamento mentale e culturale per incamminarci verso un futuro prospero in armonia con il pianeta.

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Come facciamo a cambiare?

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Gli incentivi monetari per superare la deprivazione umana e il degrado ecologico sono lo strumento migliore?

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E se i nostri valori, newtwork e i prinipici di reciprocità fossero più efficaci?

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Vedremo come risponde a questi interrogativi Kate Raworth nella prossima puntata.

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Legenda relativa ai link:

* fonte citata nel libro “Economia della Ciambella”

** approfondimento suggerito da Culturaintour

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⭕ L’umanità ideale in tre immagini

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Lʼeconomia della ciambella di Kate Raworth – puntata 12 – terza parte

Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo

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3a mossa, Coltivare la natura umana

Passare dall’Uomo economico razionale

a Esseri umani sociali adattabili

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L’umanità ideale in tre immagini

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Kate Raworth ci esorta a coltivare la natura umana che abbiamo trascurato da troppo tempo perché impegnati a ricalcare il modello dell’uomo economico.

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Per poter vivere in armonia con il pianeta che è la “nostra casa”, dobbiamo ricordarci che: 

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1. siamo esseri sociali e riconoscenti (e non strettamente egoistici)

2. abbiamo valori fluidi (e non gusti fissi)

3. siamo interdipendenti (e non isolati)

4. siamo approssimativi (e non calcolatori)

5. siamo parte della biosfera (e non dominatori della natura)

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.Come abbiamo visto nei nostri precedenti articoli qui e qui, dobbiamo desiderare di cambiare per poterci garantire uno spazio operativo sicuro per l’umanità.

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Come possiamo attuare i necessari cambiamenti?

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Le politiche economiche tradizionali portano a credere che un modo affidabile per cambiare il comportamento delle persone sia quello di intervenire sui prezzi: per creare mercati, per assegnare diritti di proprietà o applicare leggi.

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In molti casi però avvalersi dei prezzi come soluzione risulta essere una leva troppo sopravalutata dagli economisti del XX secolo che hanno invece sottovalutato il ruolo dei nostri valori, senso di reciprocità, network ed euristiche.

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In alcuni casi si mettono a rischio situazioni o progetti proprio quando si dà loro un prezzo.

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Nel 1970 Richard Titmuss evidenziò nel suo libro “The Gift Relationship” * – La relazione del dono – un’indagine sulle donazioni di sangue:  emerse che la qualità del sangue era migliore in Gran Bretagna con i volontari senza compenso rispetto a quella degli Stati Uniti dove invece i donatori erano pagati.

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Quindi c’è da chiedersi: .

gli incentivi in denaro servono a rafforzare nelle persone “le motivazioni ad agire” o invece le spengono se si sostituiscono con il denaro?

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Il filosofo Sandel ha esposto le proprie preoccupazioni: il denaro può erodere valori e regole sociali trasformandole in regole di mercato.

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J. Rode,E. E. Gómez-Baggethun e T. Krause si sono occupati di questo fenomeno con la ricerca “Motivation crowding by economic incentives in conservation policy: a review of the empirical evidence”.*

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Il rapporto mostra che spesso iniziative politiche in ambito sociale – per esempio progetti di tutela ambientale che possono essere raccogliere rifiuti, piantare alberi o moderare il consumo di legname –  con incentivi monetari non danno il risultato sperato.

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Kate Raworth suggerisce di avvalersi di mezzi più efficaci per motivare i cambiamenti comportamentali che si fondano su reciprocità, valori, accorgimenti e network.

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Puntare su incentivi, network e regole

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Gli incentivi – intesi come spinte comportamentali o accorgimenti – e gli effetti del network spesso funzionano perché si basano su regole e valori come senso del dovere, rispetto e attenzione.

Se vogliamo fare un esempio per l’acqua e/o l’energia, sono sufficienti semplici accorgimenti come installare timer per la doccia e per l’illuminazione.

In questo modo negli edifici sia pubblici che privati si possono ridurre i consumi e/o evitare lo spreco di acqua o energia.

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Gli effetti del network influenzano notevolmente i comportamenti sociali ed ecologici. Per citare un esempio, quando la giovane attivista pakistana Malala Yousafzai divenne nota per il suo impegno contro la sopraffazione dei bambini e a favore dell’istruzione, ispirò milioni di ragazze a reclamare il diritto di andare a scuola.

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Per rendersi conto della forza dei valori insiti negli esseri umani, si può far riferimento all’indagine di un gruppo di ricercatori statunitensi che cercava il modo per incentivare comportamenti ecologici. 

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Vennero esposti alcuni cartelli in una stazione di servizio che invitavano gli automobilisti a fare un controllo gratuito delle gomme. 

Le scritte sui cartelli facevano leva su motivazioni differenti: alcune su quella del risparmio economico, altre sulla tutela ambientale e altre ancora sulla sicurezza stradale.

II risultati migliori si ebbero quando vennero esposti i cartelli che dicevano:  

“Ci tieni all’ambiente? Controlla la pressione delle gomme!”

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Richiamare i valori che possono far più presa fa una notevole differenza.

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Anche l’attivazione di norme sociali può avere effetti di ampia portata e alcuni esperti di comportamenti sociali sostengono che l’approccio più efficace consiste nel connettersi con i valori e le identità delle persone piuttosto che con il denaro.

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Ricominciamo a incontrarci

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La nostra sfida è abbandonare il ritratto dell’uomo economico.

A quali immagini sarebbe auspicabile  ispirarci per disegnare un nuovo autoritratto economico?

Lo ha scoperto Kate Raworth  che, nel corso del tempo, ha posto questa domanda a studenti, manager, politici.

Le immagini hanno un grande potere perché evocano valori molto forti e Kate ha rilevato che sono essenzialmente tre le figure che nel sentire degli intervistati descrivono l’umanità:

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una comunità perché noi esseri umani siamo una specie tra le più sociali e dipendiamo gli uni dagli altri;

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un seminatore-mietitore perché è una figura che ci porta al concetto di integrazione con tutto il mondo vivente dal quale dipendiamo;

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gli acrobati in quanto rappresentano la nostra capacità di avere fiducia, di rapportarci e di cooperare con gli altri per raggiungere risultati che da soli non si possono ottenere.

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Concludiamo con le parole di Kate Raworth:

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“Abbiamo già sprecato 200 anni osservando il ritratto sbagliato di noi stessi con l’uomo economico, con soldi in mano, calcolatrice in testa, natura sotto i piedi e un appetito insaziabile nel cuore.

È giunto il momento di diventare persone capaci di prosperare e di impegnarci a interagire tra noi e con questa nostra casa vivente che non è solo nostra.

Adam Smith affermava che l’uomo ama trasportare, barattare e scambiare ma diceva anche che noi e le società prosperiamo quando mostriamo la nostra umanità, giustizia, generosità e senso civico”.

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Proseguiamo la prossima volta per conoscere l’equilibrio meccanico.

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Legenda relativa ai link:

* fonte citata nel libro “Economia della Ciambella”

** approfondimento suggerito da Culturaintour

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⭕ L’economista invidioso del fisico

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Lʼeconomia della ciambella di Kate Raworth – puntata 13

Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo 

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4a mossa, Comprendere i sistemi

Passare dall’equilibrio meccanico 

alla Complessità dinamica 

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L’economista invidioso del fisico

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Bramosi dell’autorevolezza della scienza, gli economisti cercarono di imitare le leggi del moto di Newton descrivendo l’economia come un meccanismo stabile.

Ispirandosi alle leggi fisiche del moto scoperte da Newton per spiegare dagli atomi al movimento dei pianeti, gli economisti si impegnarono per scoprire le leggi economiche del moto per spiegare il mercato dal consumatore al prodotto nazionale.

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Intorno al 1870 infatti fu l’economista William Stanley Jevons che dichiarò che la teoria dell’economia presenta una stretta analogia con la scienza della meccanica statica e le leggi dello scambio dimostrano di assomigliare alle leggi dell’equilibrio di una leva.”*

Aveva una visione simile anche l’economista Léon Walras che affermò che “la teoria pura dell’economia è una scienza che assomiglia alle scienze fisico-matematiche sotto ogni aspetto”.*

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Ad approvare il pensiero di Jevons e Walras, si aggiunsero altri economisti che paragonarono il ruolo della gravità nel fermare il pendolo con il ruolo dei prezzi nell’equilibrare i mercati.

All’epoca queste metafore meccaniche vennero considerate innovative e vennero poste  al centro delle teorie su individui e aziende dando vita al settore di studi noto come microeconomia.

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La teoria si fondava sull’assunto che ogni mercato doveva avere un solo punto di equilibrio stabile, proprio come un pendolo ha un solo punto di riposo.

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Perché questa condizione potesse durare, si dava per scontato che venditori e acquirenti fossero privi di potere contrattuale e avrebbero dovuto seguire la legge dei rendimenti decrescenti.

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Su questi presupposti venne  elaborato il diagramma della domanda e dell’offerta, diagramma che ancora oggi viene insegnato agli studenti di economia.

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Come funziona questo diagramma?

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La curva della domanda rappresenta quanti acquirenti vogliono comprare un prodotto ad un dato prezzo, dato il loro obiettivo a massimizzare la loro soddisfazione.

Significa che la curva della domanda scende man mano che l’acquirente soddisfa il suo bisogno e scende contemporaneamente la propensione a pagare il prezzo iniziale (utilità marginale decrescente  del consumo).

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La curva dell’offerta mostra invece quanti prodotti un venditore sarà disposto a fornire in relazione al prezzo dato il loro obiettivo di massimizzare i profitti.

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Era il 1870 quando Alfred Marshall tracciò questo diagramma sostenendo che “il prezzo di mercato non è stabilito né dai soli costi per il venditore né dalla sola utilità per l’acquirente ma esattamente dove i costi e l’utilità  corrispondono, lì si trova il prezzo di equilibrio del mercato”.

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Walras era convinto che l’analisi potesse essere estesa da un singolo bene a tutti i beni per giungere a formulare un modello valido per tutta l’economia di mercato introducendo il concetto di “Equilibrio economico generale”.

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In condizioni di concorrenza perfetta, secondo Walras (1899) era possibile determinare un sistema di prezzi d’equilibrio che comporta l’eguaglianza tra domanda ed offerta in tutti i mercati, nonché l’eguaglianza tra costo di produzione e prezzo di vendita per ciascun bene e per ciascun imprenditore.

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Nel 1954 Kenneth Arrow e Gérard Debreu dimostrarono matematicamente l’esistenza dell’equilibrio teorizzato da Walras.* **

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Le teorie sull’equilibrio economico generale dominarono l’analisi macro-economica per tutta la metà del XX secolo ma si reggevano su fondamenti errati: non tenevano conto dell’interdipendenza dei mercati, di tutte le variabili nell’ambito di un’economia e del ruolo del settore finanziario.

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Un modello economico non può ispirarsi alla meccanica di Newton: il pendolo dei prezzi, i meccanismi di mercato e il ritorno sicuro al punto di riposo non sono parametri applicabili all’economica.

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Nei libri di testo di economia  agli studenti viene ancora presentato il mondo economico come lineare, meccanico e prevedibile quando invece bisogna diventare “pensatori sistemici”. 

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Concetto straordinariamente lungimirante espresso dal matematico Warren Weaver con il suo articolo “Science and Complexity” * ** che nel 1948 venne pubblicato sulla rivista American Scientist.

Egli sosteneva che in natura esistono tre diverse classi di sistemi dinamici:

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1. i «sistemi semplici», aventi la presenza di poche variabili in casualità lineare;

2. «sistemi a complessità disorganizzata», aventi un numero estremamente elevato di variabili;

3. i «sistemi a complessità organizzata», caratterizzati da un numero considerevole di variabili connesse in un tutto organico. Sono questi i sistemi che incontriamo in biologia, in medicina, in psicologia, in economia e nelle scienze politiche. I problemi legati ai sistemi a complessità organizzata non possono essere risolti con le obsolete tecniche del XIX secolo che prevedevano variabili a due, tre o quattro.

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A fine anni Settanta le intuizioni di Warren Weaver diventano realtà.

Con l’avvento di potenti calcolatori che consentivano simulazioni realistiche dei sistemi naturali si è andata affermando la ricerca scientifica della complessità in varie discipline: fisica, chimica, biologia ed economia.

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Gli ecosistemi della Terra sono compromessi e non ci sono molti anni per poter intervenire e, visto che la realtà è instabile e imprevedibile, Kate Raworth ci esorta:

perché non buttare via subito le metafore sbagliate per l’economia legate  alla fisica newtoniana?

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perché non ragionare sin da ora tenendo conto che l’economia è un sistema di pertinenza della scienza della complessità?

La prossima volta parleremo della danza della complessità: la 4a mossa.

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Legenda relativa ai link:

* fonte citata nel libro “Economia della Ciambella”

** approfondimento suggerito da Culturaintour

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⭕ Pronti alla danza dinamica? 1a lezione

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Lʼeconomia della ciambella di Kate Raworth – puntata 14, prima parte

Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo 

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4a mossa, Comprendere i sistemi

Passare dall’equilibrio meccanico

alla Complessità dinamica

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Pronti alla danza dinamica? 1a lezione

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Verso la fine del XIX secolo,  alcuni economisti particolarmente inclini alla matematica decisero di fare dell’economia una scienza rispettabile come la fisica: vennero introdotte equazioni, assiomi e leggi economiche al pari del pensiero di Newton con le leggi fisiche.

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Non ci aiutano i nostri ultimi 100.000 anni di evoluzione in quanto l’Homo Sapiens ha sviluppato il cervello per risolvere e gestire problemi immediati e ora abbiamo alle spalle 150 anni di teorie economiche che hanno consolidato la propensione degli umani a modelli meccanicistici e metafore imprecisi.

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Dobbiamo superare questa eredità genetica e abituarci a sviluppare un “pensiero sistemico” perché la realtà è: dinamica, instabile e imprevedibile.

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Cos’è un sistema?

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Apparentemente è molto semplice perché si basa su un insieme di tre elementi interconnessi:

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– scorte e flussi

– cicli di feedback (o cicli di retroazione)

– ritardo della retroazione

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La faccenda si complica in modo sorprendente e imprevedibile quando questi tre fattori cominciamo ad interagire tra loro.

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Scorte e flussi sono gli elementi base di ogni sistema e possono aumentare e diminuire.

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Facciamo un esempio.

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Immaginiamo una vasca da bagno. L’acqua che esce dal rubinetto fa riempire la vasca e quella che se ne va dallo scarico la fa svuotare. Si potrà notare che il livello dell’acqua cambia seguendo il bilancio tra flussi in entrata e in uscita.

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Come abbiamo detto la faccenda si complica quando entrano in gioco i cicli di feedback perché la vasca da bagno si riempirà o si svuoterà in relazione a quanto velocemente l’acqua esce dal rubinetto e in relazione a quanto velocemente se ne va dallo scarico.

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Quindi scorte e flussi sono gli elementi centrali di un sistema e i cicli di feedback sono le interconnessioni.

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Le interconnessioni sono di due tipi:

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  • cicli di feedback (R) rinforzanti (o positivi). 

e amplificano ciò che sta succedendo creando circoli virtuosi o viziosi di retroazione.

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  • cicli di feedback (B) equilibranti (o negativi) 

e contrastano o compensano quello che succede e tendenzialmente regolano i sistemi.

I feedback equilibranti o di bilanciamento (dall’inglese di Balancing) conferiscono stabilità a un sistema.

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La complessità di un sistema si manifesta in base a come interagiscono tra loro i feedback rinforzanti e equilibranti: determina, come in una danza, il comportamento del sistema – detto comportamento emergente- che si mostra come complesso se non addirittura imprevedibile.

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Per comprendere il funzionamento del diagramma delle relazioni causa-effetto  con una rappresentazione visiva estremamente semplificato, Kate Raworth ci racconta la storia delle galline, delle uova e della strada da attraversare tratto da Business Dynamics di John Sterman.*

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Ogni freccia mostra la direzione della causalità con un segno + oppure –

Ogni coppia di frecce, che rappresenta i flussi, crea un ciclo di feedback R, Rinforzante e B di Bilanciamento.

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Applicando il diagramma alla storia delle galline, abbiamo questa situazione:

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a sinistra, ciclo etichettato con R, Rinforzante

più galline fanno uova e più nascono galline.

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a destra, ciclo etichettato con B, Bilanciamento

più galline si avventurano negli attraversamenti della strada, meno galline rimangono.

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La situazione si complica in relazione alla forza dei cicli. Infatti il tasso di natalità dei pulcini contro il tasso di mortalità delle galline investite apre a vari scenari:..

la popolazione delle galline può crescere esponenzialmente, collassare o stabilizzarsi perché entra in gioco anche l’elemento “ritardo” tra la nascita dei pulcini e i tentativi di attraversare la strada.

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Le retroazioni non sono immediate ma intercorre un lasso di tempo ossia un ritardo tra il momento in cui si ha l’effetto e il momento in cui tale effetto viene preso in considerazione per modificare il sistema.

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Risulta evidente che i ritardi possono generare sia una vantaggiosa stabilità in un sistema ma anche creare una situazione di rigidità nel sistema stesso: ci vuol tempo, per esempio, per costruire la fiducia in una comunità come ci vuol tempo se uno studente deve migliorare i voti per gli esami o se si vuol rimboschire una collina.

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Il “ritardo” può generare grandi oscillazioni quando i sistemi sono lenti a reagire: è capitato a tutti si rimane scottati o gelati mentre si fa la doccia e “litigare” con i rubinetti per regolare l’acqua calda o fredda .

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È tra queste interazioni tra scorte, flussi, feedback e ritardi che nascono i sistemi adattativi complessi:  adattativi perché si evolvono con il tempo e complessi per l’ imprevedibilità del loro comportamento emergente.

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Come ebbe a dire l’economista Orit Gal, “la teoria della complessità ci insegna che gli eventi più importanti rappresentano la maturazione e la convergenza di tendenze sottostanti: riflettono il cambiamento che si è già verificato all’interno del sistema“.

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Molti eventi che sembrano improvvisi in realtà sono la repentina manifestazione di pressioni accumulate nel tempo nel sistema – come il collasso della Lehman Brothers nel 2008.

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Negli ultimi 150 anni, molti economisti avevano ben intuito la complessità dell’economia e, senza successo, cercarono di mettere da parte il pensiero economico basato sull’equilibrio e le scienze fisiche.

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Erano consapevoli del fatto  che le teorie economiche si basavano su analisi dei sistemi estremamente limitate e fondate su assunzioni molto rigide sui modi in cui si comportano i mercati (competizione perfetta, rendimenti, piena informazione, razionalità degli attori del mercato, etc).

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Cominciamo – come ci esorta Kate Raworth – a pensare l’economia in modo sistemico e ci ricorda che:

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il pensiero dell’equilibrio porta con sè il concetto di esternalità che sono gli effetti collaterali , positivi o negativi  derivanti dall’attività economica che impattano sul benessere della collettività o di altre imprese.

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Gli effetti negativi sono dei veri e propri  costi “esterni” (per esempio l’inquinamento o danni ambientali) di cui le teorie economiche non tengono conto ma che, con la globalizzazione, sono stati amplificati generando gravi crisi sociali ed ecologiche.

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Ora parleremo di bolle, boom e  crolli: la dinamica della finanza.

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Le bolle sono il fenomeno in cui il prezzo di un bene continua a salire fino a esplodere.

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È celebre la bolla speculativa, in Inghilterra, sulle azioni della South Sea Company.** Bolla che esplose nel 1720 e che ebbe, come vittima illustre, proprio Isaac Newton che non seppe resistere alle tentazioni del mercato e investì, per poi perdere, i risparmi di una vita.

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Il padre della meccanica era stato disorientato dalla complessità  e commentò amaramente:

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“Posso calcolare il movimento delle stelle ma non la pazzia degli uomini”.

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In realtà paghiamo tutti noi l’incapacità di comprendere i sistemi dinamici.

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Nella finanza è emblematico il crollo del 2008 quando la Lehman Brothers – che allora era la quarta banca d’affari in USA – annunciò il fallimento e trascinò nel baratro la borsa e successivamente i mercati di tutto il mondo.

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Ne intravide l’avvisaglia l’economista Steve Keen che sostenne che “provare ad analizzare il capitalismo escludendo banche, debito e denaro e come cercare di analizzare gli uccelli ignorando che hanno le ali”.

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Non a caso dopo il 2008, molti esperti cercarono di approfondire i lavori dell’economista statunitense – noto per la sua teoria del 1975 dell’instabilità finanziaria e sulle cause delle crisi dei mercati – Hyman Minsky ** che metteva l’analisi dinamica al centro della macroeconomia.

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Minsky sosteneva che la stabilità genera instabilità.

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Perché?

Continua a leggere e lo scopriamo insieme.

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Vediamo la spiegazione con i feedback.

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Nei periodi positivi il mercato acquisisce fiducia portandolo a essere propenso ad assumersi rischi e prendere denaro in prestito e fare investimenti. I prezzi delle abitazioni e di altri beni inizieranno a salire generando ulteriore fiducia nel mercato. In questi periodi di forte espansione si sviluppa un boom di investimenti speculativi.

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Ma prima o poi i prezzi non staranno più al passo con le aspettative causando l’insolvenza dei mutui e il calo del valore dei beni. Il panico degli investitori ne provocherà la vendita massiccia. Il settore finanziario diverrà insolvente, provocando un crollo, chiamato appunto “Momento Minsky“.

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I boom di investimenti speculativi rappresentano l’instabilità di fondo nell’economia capitalistica.*

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Dopo il crollo gradualmente la fiducia ritornerà e il processo ripartirà in un ciclo graduale.

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Cosa insegna il crollo del 2008?

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La struttura di un network finanziario può essere punto di forza ma anche di debolezza: si rivela efficace se si comporta come ammortizzatore ma può anche trasformarsi in un amplificatore degli shock.

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Come ammise nel suo discorso del 2011 Gordon Brown, primo ministro britannico all’epoca della crisi finanziaria, abbiamo creato un sistema di monitoraggio che osservava le singole istituzioni. Quello fu il grande errore. Non abbiamo capito che il rischio era diffuso nel sistema, non abbiamo capito il coinvolgimento reciproco delle diverse istituzioni e quando globali fossero le cose.**

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La buona notizia è che avvieranno nuovi modelli dinamici dei mercati finanziari: nel team figurano Steve Keen, l’economista che intravide i presupposti del crollo finanziario del 2008 e Russell Standish, programmatore informatico: il programma per computer sulla dinamica dei sistemi non poteva che chiamarsi “Minsky”** e terrà conto dei feedback delle banche, del debito e del denaro.

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Finalmente un approccio alla complessità per comprendere gli effetti dei mercati finanziari sulla macro-economia.

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Termina qui questo articolo che è stato piuttosto “complesso”.
Ti aspettiamo con la prossima puntata e parleremo della dinamica della diseguaglianza.

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Legenda relativa ai link:

* fonte citata nel libro “Economia della Ciambella”

** approfondimento suggerito da Culturaintour

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⭕ Lo Schwarzenegger pensiero in economia

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Lʼeconomia della ciambella di Kate Raworth – puntata 15

Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo 

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5a mossa, Progettare per distribuire

Passare da “la crescita appianerà le disuguaglianze”

a distributivi per principio

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Lo Schwarzenegger pensiero in economia

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Nel campo dei culturisti negli anni Sessanta, il cui massimo esponente era  Arnold Schwarzenegger e la massima in voga era: “Niente dolore, niente guadagno”. Questa filosofia sembra si addica perfettamente alla logica dell’economia del XX secolo: le nazioni devono sopportare l’inevitabile dolore sociale della profonda diseguaglianza se vogliono creare una società più ricca e più equa per tutti.

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Questo concetto paradossale porta anche molti politici ad accettare e giustificare misure di austerità  che finiscono per amplificare i sacrifici proprio delle categorie meno abbienti con la conseguenza di portarci ancora più lontano dallo spazio sicuro e giusto della Ciambella.

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È opportuno che la filosofia degli economisti del XXI secolo invece consideri la crescente diseguaglianza come errore di pianificazione economica adoperandosi perché le economie siano più redistributive sul piano della ricchezza che deriva dalla proprietà terriera, dalla creazione del denaro, dall’impresa, dalla tecnologia e dalla conoscenza.

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Invece di affidarsi solo al  mercato e alle soluzioni statali, è necessario dare un ruolo al grande potenziale dei beni comuni.

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Le montagne russe dell’economia

Fino a qualche decennio fa era facile individuare le persone a basso reddito e prive di mezzi minimi per vivere perché si trovavano nei paesi classificati dalla World Bank con un Pil inferiore a 1000 dollari/anno.

Questi stessi paesi oggi sono stati riclassificati dalla Word Bank in nazioni a medio reddito perché hanno migliorato il livello di vita. Quindi i tre quarti delle persone povere nel mondo ora risultano essere in paesi a medio reddito.      

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 Si tratta di paesi come Cina, India, Indonesia e Nigeria dove comunque la diseguaglianza sta aumentando.

Nei paesi classificati a basso reddito vivono 300 milioni di persone e si trovano in prevalenza dell’Africa Sub-sahariana.

Grandi disparità esistono anche in paesi ad alto reddito come gli Stati Uniti e Gran Bretagna.

L’eliminazione della povertà è tra le priorità dell’agenda 2030.

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Molti dei padri fondatori dell’economia e filosofi si sono interessati al tema della diseguaglianza: da Karl Marx a Alfred Marshall e Pareto. 

Ognuno con la propria teoria.

Fino ad arrivare al 1955 quando Simon Kuznets ritenne di avere individuato la legge della diseguaglianza e la rappresentò in un grafico noto con il nome di “curva di Kuznets**: come in una sorta di corsa sulle montagne russe, secondo Kuznets in un’economia in crescita, la disparità del reddito prima aumentava, poi si livellava per poi scendere. 

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La sua conclusione dunque era che l’aumento della disuguaglianza fosse una fase inevitabile nel percorso della crescita economica.

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A questo punto possiamo riprendere le parole di Arnold: “Niente dolore, niente guadagno” e, con una vena sarcastica, chiamare questa filosofia economica “Schwarzenomic”.

Il grafico a “U” divenne un’icona nel modello dell’economia dello sviluppo rafforzando la teoria che i paesi poveri avrebbero dovuto concentrare il reddito nelle mani dei ricchi affinché potessero risparmiare e investire ed innescare così la crescita del Pil.

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W. Arthur Lewis, economista, promotore di questa teoria inventò il “modello di crescita come sviluppo” e si spinse ad affermare: “lo sviluppo deve essere anti-ugualitario”.*

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Negli anni Settanta Kuznets e Lewis ricevettero il Nobel per l’economia.

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La World Bank trattava la curva di Kuznets come legge economica per fare proiezioni su quanto tempo serviva per far scendere i livelli di povertà nei paesi a basso e medio reddito e così anche gli economisti continuarono a monitorare l’andamento della crescita e della disuguaglianza.

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Solo negli anni Novanta, avendo un lasso temporale sufficiente, si poterono analizzare i dati effettivi e il risultato fu che la legge della curva di Kuznets venne smentita dai fatti in quanto si erano verificati i più svariati scenari. In alcuni casi la disuguaglianza aumentò, poi diminuì e poi aumentò, in altri aumentò o diminuì senza più modificarsi.

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Insomma “il modello consisteva nell’assenza di un modello”.

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In alcuni casi la curva di Kuznets venne smentita in modo evidente.

Tra il 1965 e 1990 avvenne una sorta di miracolo: paesi come Giappone, Corea del Sud, Indonesia  e Malesia ebbero una crescita economica accompagnata da una forte riduzione della diseguaglianza. 

Questo importante traguardo fu possibile soprattutto grazie alla riforma dei terreni agricoli che consentì di far crescere il reddito dei proprietari dei piccoli terreni.

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Parallelamente ci furono enormi investimenti pubblici nella sanità e nell’istruzione e politiche industriali che fecero aumentare i salari bloccando allo stesso tempo i prezzi dei generi alimentari. 

Questo dimostrava che la curva di Kuznets con la sua equazione “disuguaglianza=crescita”  era evitabile.

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Nel 2014 l’economista francese Thomas Piketty presentò un’analisi sulle dinamiche della distribuzione nel sistema capitalistico. 

Partendo delle domande  “Chi guadagna cosa” e “chi possiede cosa” distinse due categorie:

1.nuclei che possiedono il capitale (terreni, case e beni finanziari) beneficiando delle rendite, dividendi e interessi.

2.nuclei che possiedono solo il lavoro che genera solo il salario.

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Confrontando i trend di crescita delle fonti di reddito sopra indicate, Piketty concluse che le economie occidentali (o altre simili) stanno arrivando a pericolosi livelli di disuguaglianza.

Il motivo è che la rendita da capitale ha avuto la tendenza a crescere più velocemente dell’economia causando una maggiore concentrazione di ricchezza.

Questo fenomeno si accentua ancora di più da lobby e influenze politiche che promuovono gli interessi di chi è già ricco.

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Il capitalismo genera automaticamente disuguaglianze arbitrarie e insostenibili che mettono profondamente a rischio i valori meritocratici sui quali si fondano le società democratiche”.

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Piketty mise in evidenza che lo studio di Kuznets era stato condotto in un periodo in cui l’economia era prospera.

La disparità di reddito e la disparità di ricchezza negli Stati Uniti e in Europa erano diminuite nella prima metà del XX secolo come aveva rilevato Kuznets ma la tendenza a equalizzare ipotizzata nella logica dello sviluppo capitalistico si collocava in un’epoca storica molto particolare: ci si trovava con due guerre mondiali alle spalle e la Grande depressione. Il contesto vedeva scarsi capitali e i governi disposero ingenti investimenti pubblici nell’istruzione, nella sanità e nella sicurezza sociale e ciò diede lo slancio a un’economia fiorente.

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Perché la disuguaglianza è un fattore allarmante?

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I Paesi che presentano una forte disuguaglianza hanno implicazioni sistemiche non solo sul ceto povero ma danneggiano il tessuto sociale nel suo complesso a livello economico, politico, sociale, sanitario, ecologico. 

Gli effetti si traducono nella realtà con abbandoni scolastici, delinquenza, malattie mentali, gravidanze adolescenziali, uso di droga, comunità disfunzionali, degrado ambientale, etc.

Quando i livelli di iniquità sono elevati è a rischio la stessa democrazia perché il potere si concentra nelle mani di pochi e mette sul mercato l’influenza politica.

Nel 2000 le parole schiette di Al Gore, ex vicepresidente degli Stati Uniti sintetizzano queste dinamiche: “La democrazia americana è stata manomessa e la manomissione consiste nel finanziamento delle campagne elettorali”.

La disuguaglianza contribuisce al degrado ecologico e mina una società perché erode il capitale sociale fondato sulle connessioni, la fiducia e le regole della comunità.  Un’azione collettiva è determinante per chiedere una legislazione ambientale.

Numerose ricerche hanno dimostrato che la disuguaglianza non fa crescere le economie più velocemente ma anzi le rallenta.

Società più eque siano esse ad basso reddito che ad alto, sono più sane e più felici.

Il mito “niente dolore, niente guadagno” della curva di Kuznets è stato confutato.

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Avanti col network!

Non perderti la prossima puntata.

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Legenda relativa ai link:

* fonte citata nel libro “Economia della Ciambella”

** approfondimento suggerito da Culturaintour

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⭕ Fare rete: l’importanza di mettersi insieme

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Lʼeconomia della ciambella di Kate Raworth – puntata 16, prima parte

Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo 

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5a mossa, Progettare per distribuire

Passare da “la crescita appianerà le disuguaglianze”

a distributivi per principio

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Fare rete: l’importanza di mettersi insieme

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La curva di Kuznets è stata smentita.

Ora, se vogliamo portare tutti nella zona sicura ed equa della Ciambella è necessario un nuovo approccio.
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Non aspettate che la crescita economica riduca la disuguaglianza perché non lo farà.

Invece, create un’economia basata sulla distribuzione.”

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Il nodo centrale è rimodulare la distribuzione del reddito, della ricchezza, del tempo e del potere. Indubbiamente è un obiettivo molto difficile ma emergono molte possibilità se si ragiona in termini sistemici.

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Per prima cosa Kate Raworth propone una nuova immagine che rappresenta la progettazione distributiva (vedi immagine sopra).

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Si tratta di un network diffuso i cui nodi, più grandi o più piccoli, sono interconnessi in una rete di flussi.

In natura queste strutture sono organizzate secondo frattali e riportare questo modello in un’economia può portare a una distribuzione più equa del reddito e della ricchezza.

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Cos’è un frattale?

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Il frattale è un “oggetto geometrico”** in cui un motivo identico si ripete in tutte le direzioni dando origine a strutture eccellenti per distribuire in maniera affidabile le risorse all’interno di un sistema.

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La natura è ricca di frattali: possiamo immaginare per esempio la chioma di un albero dove è facile notare come ogni singolo rametto riproduca in scala ridotta il proprio ramo e in miniatura l’albero nella sua grandezza.

I frattali, queste curiose forme geometriche, li troviamo ovunque: in un girasole, in un broccolo in un fiume e nella ramificazione del sistema respiratorio.     

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Risorse (come energia, nutrimenti, materiali e informazioni) fluiscono in questi network tenendo conto di un equilibrio tra efficienza e resilienza.

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L’efficienza viene raggiunta quando un sistema ottimizza il suo flusso di risorse per raggiungere i suoi obiettivi.

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La resilienza si basa sulla differenziazione e sull’abbondanza di connessioni nei periodi di shock o cambiamento.

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L’equilibrio è molto importante.

Un eccesso di efficienza rende un sistema vulnerabile.

Un eccesso di resilienza lo rende stagnante.

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Per comprendere i network naturali, un team di ricercatori e teorici del network – Sally Goerner, Bernard Lietaer e Robert Ulanowics – studiarono le varie strutture e i flussi di risorse presenti negli ecosistemi in natura: se vogliamo imparare dai network naturali per creare un’economia prospera, dobbiamo considerare diversità e distribuzione.

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Un  network economico diventa  iniquo e fragile se gli attori più forti riducono la pluralità e la diversità degli attori piccoli e medi. Vedi ad esempio la situazione dei colossi bancari e delle multinazionali in tutti i settori merceologici.

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Lo sviluppo economico deve focalizzarsi di più sullo sviluppo umano, comunitario e del business su piccola scala perché la vitalità a lungo termine e qualsiasi dimensione dipende da queste cose”.*

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Come possiamo distribuire il valore (materiali, energia, conoscenza e reddito) in modo molto più equo?

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Ridistribuire il reddito e la ricchezza

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Nella seconda metà del XX secolo, le politiche volte alla ridistribuzione riguardavano:

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1.Tasse progressive su reddito e trasferimento di denaro

2.Protezione del mercato del lavoro (salario minimo)

3.Servizi pubblici come sanità, istruzione, edilizia sociale.

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Politiche fortemente minate dalla corrente neoliberista.

Tuttavia all’inizio del XXI si notano politiche ridistributive: a volte sono segnali e altre volte sono interventi concreti.

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Nei paesi più ricchi molti economisti mainstream ritengono opportuno innalzare le aliquote fiscali per i redditi più alti e tassare le rendite da capitale.

A livello globale alle aziende viene chiesto di introdurre un salario massimo per i dirigenti.

Alcuni governi, come in India, offrono un accesso garantito al lavoro a che ne abbia necessità.

Tuttavia queste politiche mirano alla distribuzione del reddito e non della ricchezza che lo genera.

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Secondo l’economista e storico Gar Alperovitz  per affrontare la diseguaglianza alla radice bisogna democratizzare la proprietà della ricchezza: perché “i sistemi politico-economici sono in gran parte definiti dal modo in cui la proprietà viene detenuta e controllata.”

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Seguendo un modello sistemico integrato, nel XXI secolo emergono cinque possibilità di  trasformare le dinamiche del possesso della ricchezza riconducibili a :

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1.Possesso della terra

2.Creazione del denaro

3.Impresa

4.Tecnologia

5.Conoscenza

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L’aspetto interessante è che alcune delle possibilità dipendono da riforme statali e quindi richiedono un processo di cambiamento a lungo termine.

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Altre possono essere avviate da movimenti grass-root ** ossia movimenti dal basso e posso iniziare immediatamente.

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Modificando le dinamiche della ricchezza si contribuisce alla trasformazione da economie divisive a distributive riducendo nel processo povertà e disuguaglianza.

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La prossima volta vedremo nei dettagli le cinque aeree per trasformare le dinamiche del possesso della ricchezza.

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Legenda relativa ai link:

* fonte citata nel libro “Economia della Ciambella”

** approfondimento suggerito da Culturaintour

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⭕ Di chi è la terra? Chi crea il denaro?

, in

Lʼeconomia della ciambella di Kate Raworth – puntata 16, seconda parte

Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo 

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5a mossa, Progettare per distribuire

Passare da “la crescita appianerà le disuguaglianze”

a distributivi per principio

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Di chi è la terra? Chi crea il denaro?

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Nel XXI secolo abbiamo l’opportunità di trasformare le dinamiche del possesso della ricchezza e “di distribuire per principio”. Le aree su cui intervenire sono cinque.

In questo articolo vedremo la terra e il denaro.

Queste innovazioni contribuiranno a cambiare le economie da divisive a distributive e come effetto ridurranno povertà e disuguaglianze.

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1..Di chi è la terra?

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Nel corso della storia dell’uomo, la proprietà è stata gestita nei modi più disparati e con le logiche più svariate. A partire dalla strategia di Enrico VIII nel XVI secolo di sopprimere i monasteri inglesi e svenderne le terre per arrivare alla visione di Henry George che ispirò la corrente economica nota come georgismo **, secondo la quale ognuno ha il diritto di appropriarsi di ciò che realizza con il proprio lavoro mentre tutto ciò che si trova in natura, principalmente la terra, appartiene all’intera umanità e proponeva un’imposta sul valore fondiario.

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Via via così nel corso dei secoli per arrivare ad Adam Smith che celebrava la capacità del mercato di auto-organizzarsi e promuoveva il passaggio della terra a proprietà privata. Garrett Hardin, dal canto suo, riteneva che gli individui utilizzano un bene comune per interessi propri e i diritti di proprietà non sono chiari introducendo nel 1968 il concetto di “Tragedia dei beni comuni* **

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Elionor Ostrom, Nobel nel 2009**, contestò la tesi di Hardin con una serie di studi in merito all’auto-organizzazione dei beni comuni.** Ostrom e il suo team di ricercatori analizzarono l’uso condiviso delle risorse in varie comunità nel mondo e dall’indagine emerse che molte di queste comunità gestivano le loro terre e le risorse comuni meglio dei mercati e dei sistemi statali.*

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L’esperta ritiene che non esiste una panacea – ossia un rimedio universale che cura tutte le problematiche – per gestire bene la terra e le sue risorse: né il mercato, né i beni comuni, né lo Stato.

La pianificazione territoriale distributiva deve adeguarsi alle persone e ai luoghi e meglio potrebbe funzionare se riuscisse a combinare mercato, beni comuni e Stato per soddisfare i bisogni delle persone.*

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2. Chi crea il nostro denaro?

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Perché i sistemi commerciali complessi possano funzionare è necessario qualche forma di denaro. Il valore del denaro non è una realtà materiale ma un concetto mentale.

Come siamo siamo arrivati a usare comunemente questo strumento?**

Il motivo è la fiducia. Il denaro è un sistema di mutua fiducia, di relazione sociale riconosciuto a livello collettivo.

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Il denaro che conosciamo, qualunque sia la sua valuta (dollari , euro o yen) ha una sola identità mentre invece esistono molte altre forme possibili e in base a come viene creato e al ruolo che gli viene assegnato, determina forti conseguenze sulla sua distribuzione.

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Tuttavia il progetto del denaro – come viene creato, quale significato gli viene dato e come viene usato – ha pesanti implicazioni sulla sua stessa distribuzione.

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La creazione di denaro che conosciamo noi è da attribuirsi alle banche commerciali che offrono prestiti o linee di credito che vengono per lo più utilizzati per investimenti: per esempio acquisto di beni quali case, terreni e prodotti di tipo finanziario come titoli o azioni.

Questo modello di investimenti non genera una nuova ricchezza da cui trarre una fonte di reddito ma punta su una rendita derivante dall’aumento di valore del bene stesso.*

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Solo una bassa quota di prestiti è collocata per lo sviluppo delle imprese produttive di piccole dimensioni.

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L’attuale macroeconomia ignora i ruoli che la rendita, il debito e il settore finanziario giocano nel plasmare la nostra economia.*

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Occorre dunque riprogettare il ruolo del denaro che deve coinvolgere lo Stato, i beni comuni e il mercato e trasformare questa sorta di “monocultura monetaria” in un ecosistema finanziario.

Contando sull’esperienza storica della Grande Depressione degli anni Trenta e del  crollo finanziario del 2008, le banche centrali dovrebbero riprendersi il potere di creare denaro e trasferirlo alle banche commerciali dietro garanzia di riserve pari al 100% dei prestiti che concedono. Questa procedura preverrebbe il nascere di bolle finanziarie che arrecano enormi danni sociali ed economici.

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Le banche statali inoltre potrebbero concedere prestiti a tassi di interesse agevolati per famiglie svantaggiate e promuovere progetti di infrastrutture verdi e sociali come sistemi per l’energia rinnovabile comunitari e accelerare la trasformazione tanto necessaria.

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Cosa possono fare i beni comuni per sviluppare il nostro ecosistema finanziario?

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Nel mondo esistono già valute complementari alla moneta nazionale ufficiale. In un’ottica di resilienza si possono trovare nuovi modi di creare denaro: una nuova moneta serve a dare una spinta all’economia locale, rafforzare il tessuto sociale, generare equità nella comunità e pagare lavori che non verrebbero retribuiti.

Una propria moneta locale, già sperimentata da anni in alcuni luoghi nel mondo, consiste nel creare un network composto dai commercianti all’interno di una comunità: ognuno di loro si impegna a comprare e vendere beni e servizi nel circuito nel network.

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Un’altra forma di moneta è “il tempo”: è su questo principio che nascono le Banche del tempo in cui ci si scambiano competenze, saperi e attività usando come misura di valore il proprio tempo.

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Le banche del tempo possono avere numerose finalità. In una ricca città svizzera è sta creata una banca del tempo in cui i cittadini over60 che vi partecipano accumulano crediti di tempo di cura aiutando i residenti anziani a svolgere piccole mansioni come fare la spesa cucinare e facendo loro compagnia. Tutto questo tempo dedicato agli altri costituisce una sorta di “pensione sotto forma di  tempo” di cui si potrà usufruire per le proprie future necessità.

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Rimane il dubbio che simili soluzioni  sviliscano l’istinto umano a prendersi cura degli altri senza condizioni perché, anche se in modo intrinseco, si basano su una ricompensa anche se non è il denaro vero e proprio.

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Con la tecnologia inoltre stanno emergendo nuove monete complementari – le criptovalute ** , Con  l’invenzione di blockchain (catena a blocchi), una piattaforma digitale decentralizzata peer-to-peer che consente di tenere traccia di tutte le forme di valori che vengono scambiate tra le persone nel network. 

Una moneta che usa la tecnologia di blockchain è Ethereum** che ha attivato micro-reti per lo scambio al suo interno, di energia rinnovabile.

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Questi sono solo esempi di riprogettazione della moneta che riguardano il mercato, beni comuni e lo Stato. È un invito a riconoscere il fatto che il modo in cui il denaro viene progettato – la sua creazione, il suo ruolo ha conseguenze sulla sua distribuzione. Occorre dunque mettere al centro di un nuovo ecosistema finanziario, il potenziale della progettazione distributiva.

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Seguici per scoprire le altre tre aree coinvolte nella progettazione distributiva.

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Legenda relativa ai link:

* fonte citata nel libro “Economia della Ciambella”

** approfondimento suggerito da Culturaintour

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⭕ Di chi è il tuo lavoro? I robot? E le idee?

, in

Lʼeconomia della ciambella di Kate Raworth – puntata 16, terza parte

Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo 

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5a mossa, Progettare per distribuire

Passare da “la crescita appianerà le disuguaglianze”

a distributivi per principio

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Di chi è il tuo lavoro? I robot? E le idee?

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Nel XXI secolo abbiamo l’opportunità di trasformare le dinamiche del possesso della ricchezza e “di distribuire per principio”. Le aree su cui intervenire sono cinque.

Abbiamo già visto la terra e il denaro qui.

In questo articolo conosceremo l’impresa, la tecnologia e la conoscenza.

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Queste innovazioni contribuiranno a cambiare le economie da divisive a distributive e come effetto ridurranno povertà e disuguaglianze.

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3. Di chi è il tuo lavoro?

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Negli ultimi trent’anni, stiamo assistendo nei paesi ad alto reddito, a una stagnazione dei salari che sono, per lo più, rimasti fermi o addirittura calati nonostante le economie siano cresciute.

Gli stipendi dei dirigenti sono aumentati.

In Gran Bretagna per esempio dal 1980 il Pil è cresciuto velocemente ma non sono andati di pari passo i salari.*

Discorso analogo per gli Stati Uniti: agli anni che vanno dal 2002 al 2012 è stato addirittura attribuito il nome di “Decade of flat wages* , il decennio perduto dei salari.

La questione della stagnazione dei salari riguarda anche la Germania: negli anni in cui si è registrata una crescita dell’economia quasi record, i salari sono rimasti fermi.*

La disparità nasce da una questione di progettazione.

Chi raccoglie il valore generato dai lavoratori?

All’epoca i padri fondatori dell’economia avevano ben chiaro che si presentavano tre gruppi:

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.Lavoratori

.Proprietari terrieri

.Capitalisti

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Nel pieno della Rivoluzione industriale le imprese cedevano le azioni a ricchi investitori e una gran massa di lavoratori si offriva per dare la propria manodopera. Si andavano così delineano le classi sociali che detenevano un potere ben diverso tra loro.

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Mentre andava in auge la supremazia degli azionisti verso cui le aziende avevano l’obbligo primario di massimizzare il ritorno economico attraverso di dividendi** , i lavoratori venivano considerati come un fattore esterno all’impresa e visti come un costo da minimizzare.

La crescita del capitalismo azionario ha rafforzato questa cultura e ha dominato il XIX e XX secolo.

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Esiste un modello di impresa alternativo da applicare nel XXI secolo?

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L’analista Marjorie Kelly ha dedicato la sua carriera per studiare il reticolo di legami fra schemi proprietari, produzione e distribuzione della ricchezza.

L’attuale potere economico e la ricchezza sono in capo ad una minoranza e occorre ricercare – secondo il pensiero di Marjorie Kelly – una trasformazione: una proprietà privata che permetta una distribuzione.

Finché le imprese saranno create per concentrarsi esclusivamente sulla massimizzazione del reddito finanziario per pochi, la nostra economia sarà bloccata in una crescita senza fine e in un aumento delle disuguaglianze. *

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La proposta di Marjorie Kelly è una progettazione d’impresa chiamata generativa e si basa su due principi:

l’appartenenza radicata e la finanza azionaria.

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Immaginate che i lavoratori, invece di essere una  “componente esterna” siano i proprietari dell’azienda.

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Immaginate che queste imprese invece di emettere azioni per gli investitori esterni, emettano bond promettendo un ritorno prestabilito e adeguato.

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Questo tipo di imprese, di proprietà dei lavoratori, e le cooperative esistono. Il movimento delle cooperative nacque in Inghilterra a metà del XIX secolo.

L’aspetto i interessante è che ci sono altre forme di pianificazione del business che si stanno aggiungendo a questo modello, ormai consolidato: di simili imprese occorre creare un ecosistema. 

Imprenditori e avvocati innovativi e lungimiranti stanno riscrivendo gli attivi costitutivi e gli statuti delle società e questo vuol dire che si delineano obiettivi, strutture e diritti e doveri.

Riprogettare questi elementi significa riprogettare il dna del business e passare da un potere economico in mano a pochi a molti.

Questo nuovo network di imprese innovative sta operando affianco alle imprese tradizionali.

È vero, le aziende mainstream guidate dalla supremazia degli azionisti continuano a dominare e “ fondamentalmente dovremo cambiare il sistema che sta al cuore delle principali società – ammette Marjorie Kelly – ma bisogna partire da quello che è fattibile, che ravviva e che punta a vittorie più grandi in futuro”.

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4. Di chi saranno i robot?

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La rivoluzione digitale ha e avrà sempre più un impatto significativo in tema di lavoro, salari e ricchezza.

Finora ha  generato due tendenze opposte: da un lato ha permesso lo sviluppo di intense collaborazioni grazie ai network a costi praticamente nulli. Pensiamo alla crescita dinamica dei beni comuni gestiti collettivamente. Chiunque abbia una connessione internet può informare, imparare e intrattenere a livello globale. Chiunque può accedere al circuito della moneta blockchain, acquistare o vendere energia rinnovabile.

Tali tecnologie sono l’essenza della progettazione distributiva: ognuno può diventare prosumer (prosumer è composto dalla parola producer e consumer) ed essere utente nell’economia peer-to-peer.

È anche vero che si sta verificando una dinamica del tipo “il vincitore prende tutto”: il web anziché essere un mezzo per promuovere e sviluppare una varietà di imprese e provider di informazioni, si  è trasformato in monopoli digitali detenuti da colossi come Google, YouTube Apple, Facebook, Amazon, etc.

Di fatto stanno gestendo i beni comuni sociali globali per un esclusivo interesse commerciale e attraverso brevetti stanno cercando di tutelare i propri privilegi.*

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L’altra tendenza è di sostituire le persone stesse con robot in grado di imitare gli essere umani con prestazioni migliori. Sono a rischio milioni di posti di lavoro e a livello globale.

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Nel 2016 la Foxconn, leader mondiale cinese della produzione elettronica ha rimpiazzato 60mila lavoratori con robot in una sola fabbrica e prevede di arrivare a un milione di macchine.*

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Quali politiche può applicare una progettazione distributiva per attenuare questa tendenza?

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Una soluzione è quella di tassare le aziende per l’uso dei robot.

L’utilizzo dei robot rappresenta una duplice perdita anche per lo Stato: non essendoci lavoratori si erodono le tasse sui salari e in più gli investimenti in macchine sono spese deducibili dalle tasse.

Ecco perché bisogna investire molto di più nella formazione professionale delle persone e sviluppare competenze e abilità non proprie dei robot: creatività, empatia, contatto umano, pensiero laterale. Caratteristiche che sono essenziali in molti impieghi come insegnanti della scuola primaria, diretti artistici, psicoterapeuti e tutti i lavori in ambito. artistico e sociale.

Da mettere in evidenza che molti lavoratori non avranno un salario sufficiente per vivere da qui la necessità di prevedere un reddito minimo per tutti.

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Un’altra soluzione è il modello proposto da Mariana Mazzucato.

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È lo Stato, nelle economie più avanzate, a farsi carico del rischio d’investimento iniziale all’origine delle nuove tecnologie. È lo Stato, attraverso fondi decentralizzati, a finanziare ampiamente lo sviluppo di nuovi prodotti fino alla commercializzazione. E ancora: è lo Stato il creatore di tecnologie rivoluzionarie come quelle che rendono l’iPhone così ‘smart’: internet, touch screen e gps. Ed è lo Stato a giocare il ruolo più importante nel finanziare la rivoluzione verde delle energie alternative.

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Ma se lo Stato è il maggior innovatore, perché allora tutti i profitti provenienti da un rischio collettivo finiscono ai privati?*

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Lo Stato dovrebbe partecipare alla proprietà della tecnologia robotica con diritti sui brevetti in comproprietà pubblico-privato assegnando alle banche statali quote significative dei settori che usano tecnologie robotiche basate sulle ricerche finanziate dallo Stato.

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Con il massiccio e rapido ingresso dei robot, sono necessarie proposte innovative per dare equilibrio allo sconvolgimento del lavoro e quindi dei redditi: la ricchezza generata dalla produttività dai robot deve essere ampiamente distribuita.

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5. Di chi sono le idee?

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“Abbiamo fra noi uomini di grande ingegno, atti ad inventare e scoprire dispositivi ingegnosi: ed è in vista della grandezza e della virtù della nostra città che cercheremo di far arrivare qui sempre più uomini di tale specie ogni giorno.”

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Era marzo 1474, nella Repubblica di Venezia, venne promulgato lo Statuto dei brevetti accompagnato dalle parole che hai appena letto.

La storia dei brevetti inizia così e ne costituisce un primato a livello di legislazione mondiale.

Venezia infatti voleva premiare I famosi soffiatori di vetro con brevetti decennali con cui proteggere le loro creazioni dalle imitazioni.

Con il tempo però gli artigiani emigrarono portando e diffondendo il loro sapere in tutta Europa e in tutti i settori industriali.

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In una prima fase i regimi di proprietà intellettuale – brevetti, copyright e marchi registrati – diedero impulso alla Rivoluzione industriale. Con il tempo però il bene comune della conoscenza tendeva ad  essere monopolizzato e oggi sta mettendo in evidenza un aspetto controproducente: l’abuso delle leggi a tutela della proprietà proprietà intellettuale sta soffocando l’impulso all’innovazione. Innovazione che invece si voleva promuovere.

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In realtà i brevetti sono a vantaggio delle grandi aziende più che all’avanzamento scientifico e dei piccoli innovatori.

La teoria economica mainstream afferma che è necessaria la protezione della proprietà intellettuale per difendersi dalla concorrenza e per poter recuperare i costi della ricerca per prodotti innovativi lanciati sul mercato.

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Ma non tutti la pensano così.

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Molti decenni fa è nato un movimento per l’open source** utilizzando un software gratuito – FOSS (Free and Open Source Software) e un hardware gratuito conosciuto come FOSH (Free Open Source Hardware).

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Questa nuova cultura fondata sulla condivisione della conoscenza ha dato un forte impulso a beneficio dello sviluppo di internet: open source permette a programmatori distanti di coordinarsi e lavorare allo stesso progetto. Wikipedia è un esempio.  

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I paesi in via di sviluppo possono, attraverso l’utilizzo del FOSS, acquisire conoscenze tecnologiche e può essere favorito lo sviluppo di comunità locali di persone in grado di installarlo, utilizzarlo e magari migliorarlo.

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Le piccole e medie imprese anche con scarse risorse finanziarie possono realizzare FOSS e proporli sul mercato globale.

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Ma la progettazione open source ha enormi potenzialità a vantaggio delle comunità e delle istituzioni statali che avrebbero un ingente taglio dei costi.

Il consolidamento di una realtà collaborativa che sviluppi i beni comuni ha bisogno del sostegno delle politiche statali così come è stato per lo sviluppo del capitalismo.

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Come si può concretizzare il potenziale dei beni comuni?

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Ecco i 5 fondamentali:

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1. investire nell’ingegnosità umana (imprenditoria sociale, problem solving, collaborazione nelle scuole e nelle università) con la finalità che i giovani riescano a creare network open source mai avuti prima;

2. la ricerca finanziata con fondi pubblici diventi conoscenza pubblica escludendo la possibilità di bloccarla con brevetti, copyright;

3. monitorare le aziende perché non ci siano brevetti falsi o copyright che violino i beni comuni della conoscenza;

4. finanziare con fondi pubblici spazi e strumenti dove gli innovatori “comunitari” possano sperimentare la produzione di hardware open source;

5. promuovere la diffusione di organizzazioni civiche – da società cooperative a Comitati di studenti – affinché si realizzino una pluralità di  “nodi” che diano vita a network peer-to-peer.

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Diventare globali

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Il mondo nel suo complesso mantiene un alto livello di disuguaglianza all’interno di ciascuna nazione così come tra nazioni. Questo spinge l’umanità fuori dallo spazio equo e sicuro della Ciambella.

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Nel XXI è necessario considerarci parte di una comunità globale e far emergere la potenzialità della progettazione distributiva.

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La migrazione è uno dei sistemi più efficaci per ridurre la disuguaglianza globale: i trasferimenti di denaro inviati alle famiglie a casa da parte dei lavoratori partiti in cerca di fortuna in paesi stranieri rappresenta una fonte vitale per le economie delle comunità d’origine.

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Tuttavia bisogna ricordare che esiste un’organizzazione per la redistribuzione finanziaria. È l’ODA – Overseas Development Assistant, promossa dall’OCSE e nata nel 1970. L’impegno dei paesi più ricchi era quello di dare un aiuto finanziario, a lungo termine, ai paesi poveri a sostegno del loro sviluppo economico, sociale e politico.

Al 2013 le aspettative sono state disattese e i fondi arrivati risultavano la metà di quelli previsti.

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Lo scarso apporto di risorse è spesso giustificato dai paesi ad alto reddito sostenendo che gli aiuti venivano mal spesi o oggetto di abuso da parte governi corrotti.

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Una soluzione, dunque, potrebbe essere quella di destinare una parte dei fondi direttamente alle persone che vivono in povertà cosi che possa fungere da reddito minimo. Secondo alcuni studi sui piani di trasferimento, specie in Kenya,  emerge che le persone che possono contare su una base di sicurezza economica per i momenti di difficoltà tendono a lavorare più sodo e a cogliere più opportunità.

Va detto che questi introiti che giungono dall’esterno devono essere necessariamente complementari alle politiche statali e ai beni comuni e non devono sostituirsi ad essi.

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L’obiettivo più efficace è arrivare ad una tassa globale sulla ricchezza personale estrema: ci sono più di 2000 miliardari sparsi nel mondo. Una tassa annuale sulla ricchezza pari a solo l’1,5% del loro patrimonio porterebbe a un ammontare di  74 miliardi di aiuti. 

Per non parlare di una tassazione a carico delle industrie dannose, una carbon tax globale a tutta la produzione del petrolio, carbone e gas, una tassa globale sulle transazioni finanziarie per frenare il commercio speculativo.

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Certo queste soluzioni possono sembrare utopistiche ma lo erano anche l’abolizione della schiavitù, il diritto di voto alle donne, riconoscimento di diritti civili agli omosessuali.

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La regola per il XXI secolo è dunque l’accesso universale ai mercati, ai servizi pubblici, ai beni comuni globali. 

Il potenziale di un network della conoscenza è incredibile.

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Per fare un esempio, si può ricordare la sorprendente e commovente storia di Wiliam Kamkwamba,** un ragazzo malawiano che abbandonò la scuola nel 2001 a 14 anni perché la famiglia era indigente.

Lui continuò a studiare in biblioteca e dopo aver letto un libro sull’energia riuscì a costruire per la sua famiglia una pala eolica utilizzando materiali recuperati in discarica. Presto nel suo villaggio si conobbe l’invenzione e la gente andava da lui per ricaricare i cellulari.

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L’ingegnosità di William è a lieto fine perché dopo questo evento arrivarono i giornalisti e la notorietà gli ha permesso di ricevere finanziamenti: si è laureato negli Stati Uniti e oggi è un inventore pluripremiato.

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Wiliam ha creato una piattaforma digitale per innovatori in Malawi.

Il network consentirà di risolvere molti problemi in Africa.

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E torniamo al motto di Arnold Schwarzenegger “niente dolore, niente guadagno” e alla curva di Kuznets: le economie eque non emergono dalla povertà dopo un processo di sofferenza sociale ed economica.

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La progettazione distributiva porta a un cambiamento radicale nella mente degli economisti che devono focalizzarsi non solo sulla redistribuzione del reddito ma della ricchezza costituita da: potere di controllare terreni, creare denaro, imprese, tecnologie e conoscenza.

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C’è un’altra progettazione da mettere in atto oltre quella distributiva: la progettazione rigenerativa e la vedremo con la prossima puntata.

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Condividi conoscenza anche tu. Condividi questo articolo per far conoscere le sette mosse per il XXI secolo.

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Legenda relativa ai link:

* fonte citata nel libro “Economia della Ciambella”

** approfondimento suggerito da Culturaintour

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⭕ Quando sarò cresciuto, potrò pulire

, in

Lʼeconomia della ciambella di Kate Raworth – puntata 17

Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo 

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6a mossa, Creare per rigenerare

Passare da “la crescita ripulirà”

a rigenerativi per progetto

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Quando sarò cresciuto, potrò pulire

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Nel 2015 in Germania Kate si trovò a conversare con uno studente indiano. Alla domanda se avesse scelto di studiare tecnologie ecocompatibili, scosse la testa:

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“No, l’India ha altre priorità. Non siamo abbastanza ricchi per permetterci di pensare a queste cose. Ora abbiamo altre priorità”

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Questo episodio è emblematico perché riassume la storia economica che circola da decenni: i paesi poveri sono troppo poveri per occuparsi dell’ambiente. È con la crescita economica che ci sono i mezzi per ripulire l’ambiente e rimpiazzare le risorse utilizzate.

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Ma questo è un proposito illusorio.

Molto meglio creare economie che siano rigenerative per progetto.

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Come era successo con la curva di Kuznets, quando abbiamo parlato de “la crescita livellerà”, all’inizio degli anni Novanta in una sorprendente analogia, gli economisti statunitensi Gene Grossman e Alan Krueger pensarono di aver trovato un’altra apparente legge economica del moto.

Notarono che in 40 paesi con la crescita del Pil, l’inquinamento prima aumentava e poi diminuiva. Mentre la curva di Kuznets era caduta nell’oblio, voilà un altro schema con una U capovolta e questa volta chiamato “Curva ambientale di Kuznets”.

Grossman e Krueger riconoscevano di avere a disposizione solo dati locali e non a livello globale e che riguardavano inquinanti di aria e acqua. Nei loro studi infatti non erano considerati dati agli impatti ecologici come emissioni globali di gas serra, perdita di biodiversità, deforestazione, sostanze chimiche utilizzate in agricoltura, consumo di acqua potabile.* Nonostante ciò dichiararono: “la crescita economia porta una fase iniziale di deterioramento seguita da una successiva fase di miglioramento”. 

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Il messaggio venne ancor più enfatizzato da economisti come Bruce Yandle che affermò: “La crescita economica contribuisce a riparare i danni arrecati negli anni precedenti. Se la crescita economica fa bene all’ambiente, le politiche che stimolano la crescita (liberazione del commercio, ristrutturazione economica, riforma dei prezzi) dovrebbero fare bene all’ambiente”. *

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La filosofia “niente dolore, niente guadagno” era tornata: se volete acqua e aria pulite, foreste e oceani in salute, le cose dovevano andare peggio per poi andare meglio.

Le proteste degli ambientalisti furono ridicolizzate e vennero considerati inutili allarmismi i report che mostravano i danni agli ecosistemi provocati da una crescita forsennata.

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L’economia mainstream affermava che non vi era alcun collegamento diretto tra crescita economica e ambiente e vennero avanzate tre spiegazioni:

.1. con la crescita delle nazioni, i cittadini possono permettersi di prendersi cura dell’ambiente;

2. le industrie possono permettersi tecnologie più ecologiche;

3. i paesi più industrializzati saranno i primi a convertirsi dalla produzione ai servizi.

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Tuttavia, Mariano Torras (docente Università Adelphi NY) e James K. Boyce (ricercatore università della Tasmania) hanno condotto una ricerca mettendo a confronto i dati nazionali usati per creare la curva ambientale di Kuznets * e giungono a queste considerazioni:

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.1. cittadini non devono aspettare che il Pil cresca per chiedere aria e acqua pulite. La qualità dell’ambiente è migliore dove il reddito è distribuito in modo equo: anche e soprattutto nei paesi a basso reddito. Oltre all’equità, esiste più alfabetizzazione e i diritti civili e i politici vengono rispettati. Non la crescita economica tutela aria e acqua pulite ma il potere ai cittadini. 

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2. Sono decisive le pressioni dei cittadini sui governi e aziende per ottenere standard più severi. Per lo più le aziende passano a tecnologie ecologiche se sono costrette dalla legislazione e non perché sono aumentate le entrate.

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3. I paesi industrializzati non convertono la loro attività in servizi eliminando così  l’inquinamento ma semplicemente lo spostano altrove.

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Oggi, grazie ai progressi della contabilità dei flussi di risorse, tutti i dati omessi nella curva ambientale di Kuznets (gli impatti ecologici e i loro effetti a medio-lungo termine) danno un altro risultato. Risultato molto diverso da quello che è stato propinato per decenni.

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Ecco cosa accade.

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La buona notizia è che la UE e l’OECD – Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico – hanno dichiarato con un certo orgoglio che estrazione e lavorazione delle materie prime, nei territori dei paesi ad alto reddito, sono effettivamente diminuite con un aumento della produttività delle risorse senza intaccare la crescita del Pil. Quindi dovrebbe essere un buon segnale all’insegna della “crescita verde”.

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Ma la cattiva notizia arriva dalla visione olistica di Tommy Wiedmann, esperto di analisi dei flussi internazionali delle risorse, che dice: “Sembrerebbe che i paesi sviluppati siano diventati più efficienti nell’uso delle risorse in realtà restano ancorati a una base di materiali sottostante”.

In altre parole, per valutare l’impronta ambientale,  Wiedmann tiene conto anche dei prodotti importati da una nazione e ne calcola i relativi impatti in ogni luogo del mondo conseguenti alla loro produzione, come utilizzo di biomasse, combustili fossili, minerali metallici e da costruzione. *

L’indagine di Wiedmann porta a una prospettiva molto diversa da quella della Ue e OECD.

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Alcuni dati: dal 1990 al 2007 nei paesi ad alto reddito è cresciuto il Pil ed è cresciuta l’impronta ecologica. Stati Uniti, Gran Bretagna, Nuova Zelanda e Australia hanno avuto un incremento del 30%.

Spagna, Portogallo e Olanda hanno raggiunto un incremento del 50%

Il rapporto “Global Material Flows and Resource Productivity” realizzato nel 2016 dall’UNEP – Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente – evidenzia che il flusso di materia a livello globale è passato da 23 miliardi di tonnellate nel 1970 a oltre 70 miliardi nel 2010.

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Va da sé che se l’economia globale dovesse seguire questo trend non basterebbero tre pianeti. La curva ambientale di Kuznets diventa una montagna che l’umanità non può scalare perché non sopravviverebbe al suo picco.

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Affrontare l’economia lineare degenerativa

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Immagina un bruco. Questo bruco ingerisce cibo ad un’estremità ed espelle le sostanze di scarto dall’altra.

Con questo esempio Kate ci spiega il modello industriale lineare adottato negli ultimi duecento anni che consiste nel prendere-lavorare-usare-buttare. Questo modello si traduce in pratica con:  estrarre minerali, metalli, combustibili fossili-lavorarli per ottenere prodotti-venderli ai consumatori-buttare i prodotti.

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È evidente che l’economia non è una questione di leggi da scoprire ma fondamentalmente è una questione di progettazione.

Il modello lineare, il “bruco-industriale” per capirci, ha generato enormi profitti e arricchito molte nazioni ma è degenerativo in quanto si scontra con il mondo naturale che prospera riciclando incessantemente carbonio, ossigeno, acqua, azoto e fosforo: i bio- elementi, base della vita.

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L’attività industriale ha interrotto questi cicli vitali provocando catastrofiche conseguenze: 

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– estraendo e bruciando petrolio, carbone e gas dal sottosuolo si riversa anidride carbonica in atmosfera provocando l’effetto serra; 

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-trasformando enormi quantità di azoto** e di fosforo** in fertilizzanti.

Con l’azoto si danneggia la qualità dell’acqua, dell’aria, del suolo, l’equilibrio dei gas serra, gli ecosistemi e la biodiversità. **

Il fosforo viene disperso nei terreni agricoli e, con l’azione dell’acqua finisce in fiumi, laghi e oceani esaurendo così le riserve disponibili sul pianeta;**

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-attuando deforestazioni destinate ad agricoltura e allevamenti e all’estrazione di minerali e metalli che, dopo averli trasformati in prodotti, finiranno in discariche generando rifiuti tossici per suolo, acqua e aria.

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La teoria economica mainstream chiama questi effetti dannosi, che oltre ad essere di tipo ecologico sono anche di tipo sociale, “esternalità negative** e vanno risolti con  strumenti basati sul mercato per mezzo di quote e tasse

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La teoria quindi stabilisce, per le quote, un tetto massimo per l’inquinamento totale per poi assegnare “diritti di proprietà” con delle quote da non superare lasciando che sia il mercato a stabilire un prezzo per il diritto di inquinare. Oppure imporre tasse equivalenti al “costo sociale” derivante dall’inquinamento e lasciare che il mercato decida quanti inquinanti emettere.

Le implicazioni di queste politiche, per esempio in Germania, hanno dato effetti importanti. Hanno fatto aumentare i prezzi dei combustibili fossili facendo scendere i consumi e quindi le emissioni di carbonio e il denaro raccolto dalle tasse ambientali sul gas è servito principalmente a compensare le pensioni e le tasse sui salari.*

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Esistono tariffe differenziate anche per il consumo dell’acqua. In molti paesi del mondo a rischio siccità, il prezzo per il consumo dell’acqua varia quando si supera la quota stabilita che va oltre i bisogni essenziali (bere, cucinare, lavarsi). *

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Tuttavia nè quote, nè tasse e nè tariffe differenziate possono realmente alleggerire le gravi pressioni che l’umanità esercita sugli ecosistemi del pianeta.

Dal canto loro le aziende sono propense a chiedere tetti e permessi più ampi per incentivare le produzioni anche se a discapito dell’ambiente.

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I governi spesso per timore che la propria nazione perda in competitività non mettono in atto misure efficaci e i partiti politici temono di perdere l’appoggio del mondo imprenditoriale.

Quote e tasse è vero che sono punti di forza per cambiare il comportamento di un sistema ma sono misure ancora troppo deboli per limitare l’accumulo e ridurre il flusso di inquinanti.

Agire sulle leve per cambiare il paradigma che definisce gli obiettivi del sistema è decisamente più efficace. *

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Fino ad oggi l’economia è stata impostata sulla progettazione lineare degenerativa per cui gli incentivi sui prezzi non cambiano la corsa verso l’esaurimento delle risorse. Negli anni Novanta l’architetto e visionario John Tillman scrisse “alla fine un sistema a senso unico distrugge il paesaggio dal quale dipende e divora le fonti della sua stessa sopravvivenza”.*

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Occorre dunque passare a un modello di impresa fondata su una progettazione rigenerativa e lo vedremo con il prossimo articolo.

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Legenda relativa ai link:

* fonte citata nel libro “Economia della Ciambella”

** approfondimento suggerito da Culturaintour

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