⭕ Verso la prosperità
19/06/2021, in Economia della ciambella
Lʼeconomia della ciambella di Kate Raworth – puntata 20, seconda parte
Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo
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7a mossa, Essere agnostici sulla crescita
Passare da “dipendenti”
a “agnostici riguardo alla crescita”
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Verso la prosperità
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Ci siamo lasciati con il dilemma se continuare a volare o atterrare.
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E quindi eccoci qui, sul nostro aereo-economia: se non faremo nulla il volo continuerà verso la direzione dell’economia degenerativa e divisiva e sicuramente non porterà nulla di buono.
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Se invece decidiamo di cambiare direzione e seguire il percorso di un’economia rigenerativa e distributiva per principio si presentano nuove domande e allo stesso tempo bisogna affrontare una serie di radicali ed enormi trasformazioni.
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Cosa succederà al Pil?
Aumenterà o diminuirà nei paesi ad alto reddito?
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Certo è che occorre attraversare un impegnativo periodo di transizione: richiede la trasformazione di molti settori, della finanza, della produzione del cibo e implica una forte contrazione di industrie minerarie, cessazione della produzione di combustili fossili.
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Al contempo si devono pianificare investimenti a lungo termine delle energie rinnovabili, trasporti pubblici, ammodernamento degli edifici.
Occorre si investa nelle fonti di ricchezza – naturale, umana, culturale e fisica – dalle quali scaturiscono tutti i valori, che siano monetizzati o no.
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In realtà, come si comporterà il Pil quando realizzeremo questa transizione, verso lo spazio sicuro ed equo della Ciambella, non si può prevedere.
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La questione è che le economie capitalistiche negli ultimi due secoli sono state strutturate (leggi, istituzioni, politiche e valori) in modo da aspettarsi e chiedere una continua crescita e l’aereo-economia si ritrova così in una situazione di stallo: abbiamo bisogno di crescere ma che non ci fa prosperare e, viceversa, se puntiamo a prosperare non si può crescere.
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Proseguendo nella lettura ti renderai conto che l’aereo-economia ha creato forme di dipendenza dalla crescita ovunque: nelle istituzioni, nelle politiche, nella finanza e nella cultura a livello sociale.
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La soluzione è “imparare ad atterrare” ricorrendo al pensiero sistemico.
Certo, i piloti-economisti non stati preparati per questo e non hanno esperienza per far atterrare l’aereo-economia ma, come dice l’economista Peter Victor, meglio “rallentare per principio e non per disastro”**.
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La crescita del Pil deriva da un ciclo di feedback positivi che alla fine incontrerà un limite ossia un feedback negativo. Il limite è la capacità di sopportazione del mondo vivente.
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Come gestirebbe questa complicata situazione un pensatore sistemico?
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Assuefatti dalla finanza: “E io cosa ci guadagno?”
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Ogni decisione nel mondo della finanza gira intorno a una domanda:
cosa ci guadagniamo?
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La ricerca del guadagno è la filosofia dell’economia capitalistica dal suo sorgere nell’Inghilterra nel XIX. La cosa sorprendente è che “il meccanismo messo in moto dal movente del guadagno” scrisse Karl Polanyi “era paragonabile per efficacia, solo alle più potenti esplosioni di fervore religioso della storia. Nell’arco di una generazione, l’intera umanità fu assoggettata alla sua fortissima influenza.*
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Prima ancora di Karl Polanyi, ne parlò Karl Marx, “il denaro crea denaro” * e, andando ancora più a ritroso, troviamo il pensiero di Aristotele che distingueva l’economia – la nobile arte della gestione del nucleo domestico – dalla crematistica – la pericolosa arte di accumulare la ricchezza.
“Il denaro è stato concepito per essere usato nello scambio non per aumentare grazie agli interessi.”
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“Di tutti i modi in cui ci si può arricchire questo è il più innaturale”.
(“Politica” Aristotele IV secolo a.C.*)
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La ricerca del guadagno – vedi i ritorni agli azionisti, il commercio speculativo e i prestiti a interessi – genera la dipendenza dal Pil e si innesta nel profondo del sistema finanziario.
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John Fullerton, ex-banchiere di Wall Street spiega che il sistema finanziario è basato sull’espansione economica non compatibile in un sistema- pianeta chiuso eppure la finanza non ha un tetto.*
Per questo John Fullerton assieme a Tim MacDonald si sono chiesti come le imprese rigenerative possano sottrarsi alla pressione a dover crescere esercitata dagli azionisti.
Hanno ideato una innovativa filosofia finanziaria. “Evergreen Direct Investing”* (EDI) è una forma di investimento per essere liberi dalla tirannia della massimizzazione del valore per gli azionisti.
Il programma ha una visione a lungo termine, come i fondi pensionistici, non prevede di pagare agli azionisti i dividendi (che sono basati sui profitti) ma distribuisce ritorni finanziari “accettabili” da imprese mature e con crescita bassa o nulla. Invece di pagare agli azionisti dividendi basati sui profitti, l’impresa assegna per sempre una quota del suo flusso di reddito agli investitori.
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Il fatto è che abbiamo un concetto riguardo all’aspettativa di guadagno infinito che va contro le leggi del nostro mondo.
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Che idea abbiamo del denaro?
Spesso è considerato esso stesso un bene e non viene investito.
In un contesto di economia rigenerativa quali caratteristiche dovrebbe avere per essere in linea con il mondo vivente?
Come si possono stimolare gli investimenti nei beni comuni o nell’economia circolare o nelle energie rinnovabili?
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Una soluzione può essere una “controstallia” e cioè una piccola tassa che si paga per il possesso del denaro, in modo che più si detiene e più perde valore.
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Il concetto fu introdotto dal tedesco Silvio Gesell**, economista e uomo d’affari.
Nel 1916 scrisse “The Natural Economic Order” dove affermava che “se vogliamo che i soldi siano un mezzo di scambio migliore dobbiamo renderli delle merci peggiori”. *
Per quanto sembri un modo di intendere il denaro stravagante e irrealizzabile, la “controstallia” fu utilizzata negli anni Trenta in Germania e Austria a livello cittadino proprio per rinvigorire l’economia locale.
Il governo nazionale però interruppe l’iniziativa temendo di perdere il potere di creare denaro.
Dopo una ventina d’anni, J.M. Keynes fu molto interessato alle tesi di Gesell e gli dedica un paragrafo nella sua opera più importante “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” ** e lo definisce uno «strano e immeritatamente trascurato profeta».
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Invece di incentivare i consumi di oggi, la proposta di avere una moneta dotata di “controstallia” stimolerebbe gli investimenti rigenerativi di domani.
Cambiare mentalità riguardo al denaro, fa cambiare l’economia: il principio è di trasformare le aspettative finanziarie sostituendo la ricerca del guadagno alla ricerca del mantenimento del valore. Un esempio è investire in piani rigenerativi come le riforestazioni.*
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Certamente progettare una controstallia nella valuta porta con sé molte domande circa le sue implicazioni per l’inflazione, tassi di scambio, fondi pensionistici: sono proprio le domande che bisogna prendere in esame, per favorire la creazione di una finanza adeguata a un’economia prospera invece che in continua crescita.
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Politicamente assuefatti: speranza, paura e potere
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Come abbiamo visto fino ad ora, la crescita economica, a partire da metà del XX secolo, diviene una necessità politica generata essenzialmente da tre motivi:
la speranza di far crescere gli introiti senza dover aumentare le tasse, la paura della disoccupazione e il potere delle foto di famiglia del G20.
Vediamoli nel dettaglio.
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◎ La speranza di far crescere gli introiti senza alzare le tasse
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Una nazione dipende necessariamente dai fondi pubblici per investire nei beni e servizi per la collettività.
Per avere consenso i governi, si sa, sono sempre poco propensi ad alzare le tasse auspicando che sia il Pil a rimpinguare le casse dello Stato attraverso i gettiti fiscali.
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Ecco le possibili soluzioni per superare la dipendenza dalle entrate fiscali generate dalla crescita:
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Primo, si dovrebbe far passare lo scopo effettivo delle tasse e ottenere consenso sociale.
Per fare questo occorre rivedere prima di tutto il linguaggio come segnala l’esperto di linguistica cognitiva George Lakoff. Nei discorsi politici spesso, per ottenere un facile consenso popolare, si chiede un “alleggerimento fiscale”. L’altra parte politica dovrebbe evitare di dichiararsi contraria.* È meglio argomentare queste improbabili promesse, proponendo una “giustizia sociale”.
Stesso dicasi quando si parla di “spesa pubblica” che fa pensare a un esborso infinito. Meglio definire “investimenti pubblici” per realizzare beni e servizi finalizzati al benessere collettivo.
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Secondo, mettere fine ai paradisi fiscali dei colossi del business. Questi paradisi stanno facilitando la perdita di oltre 100 miliardi di dollari di entrate fiscali in tutto il mondo. Un terzo della ricchezza offshore si trova nei paradisi fiscali collegati al Regno Unito dove non è dichiarata e non tassata.* La Global Alliance for Tax Justice è movimento per la giustizia fiscale. Si batte per avere sistemi fiscali progressivi e redistributivi.*
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Terzo, spostare la tassazione “dai flussi di reddito” agli “accumuli di ricchezza” (proprietà immobiliari e asset finanziari).
In questo modo si avrebbe come effetto il ridimensionamento del ruolo giocato dal Pil per garantire allo Stato un gettito fiscale. Le riforme fiscali che vanno in direzione di tasse progressive vengono molto poco tollerate dalle lobby perciò è necessario un forte impegno civico nella promozione e nella difesa di queste politiche.
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◎ La paura della disoccupazione
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La diffusa disoccupazione porta con sé il seme dei conflitti sociali.
Fu per questo che, con la Grande Depressione, J.M. Keynes doveva trovare una risposta alla grave disoccupazione. L’obiettivo dell’economia divenne la crescita del Pil in quanto un’economia in espansione consentiva di creare la piena occupazione.
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Nel XXI secolo con la crescente robotizzazione del lavoro in tutti i settori, non è più pensabile che sia la crescita economica a compensare i licenziamenti dovuti all’automazione. Emerge l’opportunità di introdurre un reddito di base per tutti.
Ci sono altri interventi per risolvere la questione della disoccupazione, come quello della riduzione dell’orario di lavoro. Il passaggio a orari di lavoro retribuito molto più brevi offre una nuova via d’uscita dalle molteplici crisi che affrontiamo oggi. Molti di noi consumano ben oltre i propri mezzi economici e ben oltre i limiti dell’ambiente naturale, ma in modi che non riescono a migliorare il nostro benessere – e nel frattempo molti altri soffrono la povertà e la fame. La continua crescita economica nei paesi ad alto reddito renderà impossibile raggiungere obiettivi urgenti di riduzione del carbonio. *
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Per applicare nuove misure però occorre procedere a una trasformazione dell’economia del lavoro: partendo dai sistemi fiscali e assicurativi: i datori di lavoro per esempio dovrebbero avere convenienza quando assumo personale.
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Per incentivare il passaggio a economie più distributive e rigenerative si possono applicare misure politiche adeguate come spostare la tassazione ossia non tassare il lavoro ma l’uso delle risorse: questo porterebbe le aziende a cambiare la prospettiva: anziché ricercare modi per produrre di più con meno personale, si punterebbe alla riparazione e la rigenerazione di prodotti usando meno materiali magari creando nuovi posti di lavoro.
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Queste misure aiuterebbero a cambiare mentalità rispetto alla dipendenza dal Pil e diventare agnostiche sulla crescita?
Sicuramente servono esperimenti innovativi e studi più approfonditi.
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◎ Il potere delle foto di famiglia del G20
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La foto dei leader al summit del G20 è emblematica: in uno scatto una nazione può vedersi rappresentata per il suo potere geopolitico che corrisponde alla crescita economica.
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E se la misurazione potesse cambiare e sia considerata di successo un’economia che prospera in equilibrio?
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In questo caso la ricchezza non potrà essere valutabile solo attraverso il denaro.
In alternativa al Pil, ci sono proposte di nuovi indici per misurare il benessere di una nazione.
Per esempio l’HDI – Human Development Index – ideatodel 1990 dall’ONU* i cui criteri di valutazione sono la salute, l’istruzione e reddito pro capite. Altri indicatori nel mondo sono “Happy Planet Index”** o “Inclusive Wealth Index”**, “Social Progress Index”**.
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Ci sono anche alternative alla competizione ossia iniziative strategiche volte a promuovere la collaborazione. Un esempio è il network C40, una rete globale di grandi città che operano per sviluppare e implementare politiche e programmi volti alla riduzione dell’emissione di gas serra e dei danni e dei rischi ambientali causati dai cambiamenti climatici.**
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Oggi il Pil ha le sue regole: é portatore di potere commerciale e militare a livello globale.
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Il punto è che occorrono pensatori innovativi nel settore delle relazioni internazionali per elaborare strategie che diano inizio a una governance globale agnostica della crescita.
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Socialmente dipendenti: qualcosa a cui aspirare
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I paesi industrializzati sono dipendenti e ossessionati dalla crescita del Pil: ci ritroviamo a vivere in una cultura basata sul consumismo e con crescenti tensioni dovute alle disuguaglianze.
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Fu davvero scaltro Edward Bernays che intuì il potenziale della conoscenza della psicologia umana e costruì il suo impero creando un metodo di persuasione utilizzando gli scritti sugli studi della psicoterapia di suo zio Sigmund Freud.
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Bernays, come abbiamo visto qui, ha trasformato la cultura del consumo in stile di vita.
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Come possiamo liberarci da questi comportamenti?
I Paesi nordici hanno vietato le pubblicità rivolte ai bambini sotto i 12 anni e altri paesi hanno eliminato i cartelloni pubblicitari lungo le strade. Tuttavia quella più insidiosa e sempre più diffusa è la pubblicità online perché ha la peculiarità di essere personalizzata.
Purtroppo si aggiunge il fatto che per le comunità digitali la pubblicità è un mezzo di vitale importanza in quanto si è creata una sorta di dipendenza finanziaria.
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Ma in definitiva perché abbiamo questo bisogno insaziabile alla crescita?
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Da un lato abbiamo una scuola di pensiero che ritiene che “quando la torta economica cresce, le persone sono disposte a rispettare lo stato di diritto, le regole della maggioranza, i diritti delle minoranze, ecc.
Quando la torta economica cessa di crescere, le persone e le nazioni diventano predoni.”*
Per altri invece la crescita del Pil è un espediente per rimandare continuamente il bisogno di redistribuire.
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Secondo l’analisi di Kate Raworth, dopo aver consultato un importante esponente dell’economia della complessità, “abbiamo una forte spinta alla crescita perché le persone hanno bisogno di qualcosa a cui aspirare”.
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Se fosse vivo Edward Bernays che tanto ha studiato sulla psicologia umana per indurci a consumare, quali valori cercherebbe di attivare? A cosa potremmo aspirare che non sia il possedere di più?
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Attraverso il consumismo nascondiamo a noi stessi la povertà delle nostre relazioni con gli altri e il mondo vivente. Per Sue Gerhardt, psicoterapeuta e autrice di “Selfish Society *, “abbiamo un’abbondanza materiale ma non un’abbondanza emotiva: a molte persone manca ciò che conta davvero”.*
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Una ricerca della New Economics Foundation, ha sintetizzato in cinque semplici azioni ciò che porta benessere*:
– connettersi alle persone intorno a noi;
– essere attivi fisicamente;
– informarsi sul mondo;
– apprendere nuove abilità;
– dare gli altri.
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C’è bisogno di dirigersi verso un progresso morale e sociale – auspica Kate Raworth – dove le persone, non più prigioniere dell’arte di sopravvivere, possano aspirare all’arte di vivere.
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L’aereo economico può atterrare ora che conosce le regole dell’atterraggio: abbiamo visto tutte le forme di dipendenza dalla crescita che sono radicate a livello finanziario, politico, economico e sociale.
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Occorrono piani economici che prevedano la fine della crescita infinita del Pil e prosperare senza questa ossessione.
La metafora migliore non è un aereo come aveva fatto Rostow poiché non è capace di adattarsi a condizioni continuamente mutevoli.
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La metafora per il Pil per il XXI secolo è un abile windsurfer che cavalca la sua tavola ed è capace di gestire il vento con la sua vela, pronto a fare continui aggiustamenti, piegando, inclinando e ruotando il corpo, adattandosi all’interazione tra vento e onde.
Serve concepire il Pil come un indicatore che sale o scende e si adegua in risposta a un’economia in continua evoluzione.
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Ben vengano dunque innovatori per immaginare e progettare un’economia idonea all’arte di vivere nello spazio sicuro ed equo della Ciambella, distributiva, rigenerativa e agnostica sulla crescita.
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Ora conosci le azioni che ci avvicinano o ci allontanano dallo spazio equo e sicuro della Ciambella. Ci auguriamo ti sia utile questo lungo e intenso percorso.
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Per avere il riepilogo in immagini di tutto ciò che hai imparato, clicca sul bottone qui sotto:
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Legenda relativa ai link:
* fonte citata nel libro “Economia della Ciambella”
** approfondimento suggerito da Culturaintour
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⭕ Volare, o atterrare: questo è il dilemma
14/06/2021, in Economia della ciambella
Lʼeconomia della ciambella di Kate Raworth – puntata 20, prima parte
Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo
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7a mossa, Essere agnostici sulla crescita
Passare da “dipendenti”
a “agnostici riguardo alla crescita”
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Volare, o atterrare: questo è il dilemma
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Possiamo continuare a volare?
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La scorsa volta abbiamo parlato dell’aereo-economia di Rostow.
Kate prosegue con la metafora.
Sull’aereo tra i passeggeri si apre il dibattito, assai appassionato, sulla crescita del Pil: ci sono due convinzioni contrapposte.
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Da un lato abbiamo la fila di coloro schierati a favore del “bisogna continuare a volare” e dicono ben chiaro che la crescita economica è ancora necessaria e quindi deve essere possibile.
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Dall’altra la fila dei seguaci del “bisogna prepararsi all’atterraggio” e sono fermi nel sostenere che la crescita economia non è più possibile e quindi non può essere necessaria.
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Vediamo di approfondire le argomentazioni del primo gruppo.
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Nel 1974, in risposta alla pubblicazione del rapporto “I limiti dello sviluppo” commissionato dal Club di Roma, Wilfred Beckerman avanzò una feroce critica con il libro “In defense of Economic Growth”*.
La convinzione di Beckerman è che “se si dovesse abbandonare la crescita come scelta politica, si dovrebbe abbandonare anche la democrazia” e “i costi di una non-crescita deliberata, in termini di trasformazione politica e sociale che la società si dovrebbe accollare, sarebbero astronomici.”
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Della stessa idea sono convinti altri economisti.
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Nel 2005, Benjamin M. Friedman pubblicò “The Moral Conseguences of Economic Growth” – in Italia nel 2006 con “il valore etico della crescita”*– con il quale asseriva che i redditi in crescita portano a società più aperte e democratiche. I semplici redditi pro-capite alti non sono una protezione contro una svolta verso la rigidità e l’intolleranza.
È piuttosto quella sensazione di andare avanti e l’espansione economica che alimenta maggiori opportunità, tolleranza, mobilità sociale, equità e democrazia.
L’influente economista Dambisa Moyo ritiene che la crescita economica sia la sfida cruciale del nostro tempo. Senza crescita aumentano l’instabilità politica e sociale, il progresso umano diventa stagnante e la società va in declino*.
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La crescita economica quindi è una necessità politica e sociale a prescindere da quanto un paese sia già ricco – sostengono i seguaci del “bisogna continuare a volare”. Inoltre una nuova espansione economica è già in arrivo e può essere ecologicamente possibile.
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Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee, studiosi del «Center for digital business» del Mit di Boston, nel loro libro “La nuova rivoluzione delle macchine” affermano che stiamo entrando a grandi passi nella seconda era delle macchine: i robot consentono una capacità produttiva sempre più alta che porterà una nuova ondata di crescita del Pil.*
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D’altro canto, Onu, Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale (FIM), Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), puntano sulla crescita verde disaccoppiando il Pil dagli impatti ecologici (uso di acqua dolce, fertilizzanti e emissioni gas serra).
In questo modo il Pil continuerebbe a crescere nel tempo mentre l’uso delle risorse ad esso associato diminuirebbe.
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Vediamo come funziona la teoria del disaccoppiamento (decoupling) nei tre percorsi possibili:
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Disaccoppiamento relativo,
Disaccoppiamento assoluto,
Disaccoppiamento assoluto sufficiente

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Con la strategia del disaccoppiamento relativo, il Pil cresce mentre l’uso delle risorse e gli impatti ambientali sono molto più lenti.
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È bene notare che questo tipo di “crescita verde” è raggiungibile nei paesi a basso reddito in quanto sarebbero sufficienti misure di efficienza idrica ed energetica.
Nei paesi ad alto reddito però, dove i consumi hanno superato di gran lunga la capacità di sopportazione della Terra, il disaccoppiamento relativo non è assolutamente sufficiente. Questi paesi dovrebbero far crescere il Pil con un disaccoppiamento assoluto ossia l’uso delle risorse dovrebbe diminuire con l’aumentare del Pil.
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Se vogliamo vedere la realtà dei fatti, la riduzione della pressione sugli ecosistemi della Terra, soprattutto per quanto riguarda le emissioni di CO2, non sta avvenendo abbastanza in fretta.
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Bisogna che i paesi industrializzati abbiano standard più stringenti quando si parla di crescita verde e affrontare la necessità di applicare un sufficiente disaccoppiamento assoluto per rientrare nei limiti sopportabili del pianeta.
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I seguaci del “bisogna continuare a volare” sostengono che la crescita verde sia perseguibile * mettendo in pratica queste strategie:
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1. passando rapidamente da combustili fossili a energie rinnovabili;
2.passando da un’economia lineare a un’economia circolare ossia un sistema rigenerativo in cui i prodotti a fine uso non siano rifiuti ma siano materiali che possono essere riparati, dedicati a nuovo uso, riciclati;
3.espandendo il settore economico “immateriale” * ossia quello dei prodotti e servizi digitali attraverso l’e-commerce.
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È importante rilevare che la strategia del disaccoppiamento PIL-risorse non é una fase da adottare una tantum ma deve essere perenne.
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Ma siamo sicuri che queste misure possano portare un “disaccoppiamento” tale che nei paesi ad alto reddito la crescita sia sufficientemente verde?
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Con questo quesito, è interessante conoscere le argomentazioni dell’altro gruppo: i seguaci di “bisogna prepararsi all’atterraggio” i quali sono convinti che la crescita verde nei paesi ad alto reddito sia irrealizzabile. Neppure l’attuazione di un disaccoppiamento entro i limiti del pianeta è compatibile con la crescita del Pil.
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Gli economisti mainstream nel XX secolo hanno proposto varie teorie della crescita economica.
In particolare il premio Nobel Robert Solow nel 1956 con il suo modello Solow-Swan attribuiva la crescita economica degli Stati Uniti al progresso tecnologico** inteso come processo che porta nel tempo allo sviluppo della produttività, e quindi all’aumento della ricchezza all’interno di un Paese. Il modello di Solow prendeva in esame la forza lavoro e il capitale ma si mostrava lacunoso poiché si spiegava solo una parte della crescita esponenziale e lasciava non chiarito un imbarazzante “residuo” dell’87%.
Nel frattempo anche Moses Abramovitz, studioso dello sviluppo economico e prof. alla Stanford university, approfondì le cause della crescita della produttività globale ma la sua analisi lo portò ad ammettere che questo residuo era in realtà “una misura della nostra ignoranza sulle cause della crescita economica” *.
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Nel 2009, il fisico R. Ayres e l’economista ambientale B. Warr tracciarono un nuovo modello della crescita economica che, oltre la forza lavoro e il capitale, considerava l’energia o meglio l’exergia** ossia la percentuale dell’energia totale che può essere sfruttata per il lavoro utile, invece di finire dispersa sotto forma di residui e calore.
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Quando venne applicato il modello Ayres-Warr per spiegare la crescita economica esponenziale di paesi come Stati Uniti, Gran Bretagna, Giappone e Austria, emerse che il misterioso residuo di Solow attribuito al progresso tecnologico in realtà era dovuto all’aumento di efficienza con cui l’energia viene convertita in lavoro utile.
Gli ultimi due secoli di crescita esponenziale sono dovuti alla disponibilità di energia fossile a basso prezzo.
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I due ricercatori con “Crossing the Energy Divide: Moving from Fossil Fuel Dependence to a Clean-Energy Future”* – Attraversare il divario energetico: passare dalla dipendenza dai combustibili fossili a un futuro di energia pulita mostrano come massicci miglioramenti nell’efficienza energetica che consentono di recuperare l’energia dispersa, possano colmare l’economia globale fino a quando le energie rinnovabili pulite potranno sostituire completamente i combustibili fossili.
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È opinione di David Murphy, economista energetico che i tassi di crescita economica nel futuro non potranno essere gli stessi degli ultimi 100 anni*.
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E, a proposito di crescita verde, il gruppo “bisogna prepararsi all’atterraggio” avanza perplessità e cita l’analisi dell’economista Gregor Semieniuk: l’economia “immateriale” è solo nel nome.
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Inoltre non è dato per scontato che l’economia immateriale contribuisca così tanto alla crescita del Pil poiché sono in grande espansione una vasta gamma di servizi e prodotti online (istruzione, formazione, intrattenimento, musica, software) di grande valore economico che non viene venduto con un ricavo ma viene condivido a basso costo o addirittura gratuitamente.
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È in grande sviluppo anche l’economia della condivisione (auto, coworking, spazi) e scambi (vestiti, libri, giocattoli). Anche in questo caso esiste un valore economico senza o quasi transazione di mercato.
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Dalla prospettiva della società o dei beni comuni questo cambiamento può essere entusiasmante in quanto finalizzato al benessere umano.
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Il tramonto del Pil però non è compatibile per finanza, business e Stato che, per la loro stessa natura, sono strutturati per ottenere introiti monetari.
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I seguaci del “bisogna prepararsi all’atterraggio” affermano che:
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1.la crescita infinita del Pil non è possibile quindi non è necessaria. Occorre passare a un’economia verde e sostenibile senza crescita;
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2.i redditi più alti non rendono più felici come dimostrato dall’economista Richard Easterlin che scoprì che la felicità auto-dichiarata aumentava con il reddito. Ma la cosa sorprendente dell’indagine, nota come il Paradosso di Easterlin** metteva in evidenza che, oltre una certa soglia, nonostante il Pil pro-capite fosse cresciuto, i livelli di felicità erano rimasti invariati se non scesi. “All’interno di un singolo Paese, in un dato momento reddito e felicità soggettiva non sono sempre legati, le persone più ricche non sono sempre le più felici“ **
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Tuttavia c’è da aggiungere che l’analisi di Easterlin è stata messa in discussione da altri studi. In particolare con le ricerche di Betsey Stevenson e Justin Wolfers emerge che la felicità auto-dichiarata aumenta con l’aumentare del reddito pro-capite e più lentamente se ci si riferisce alla ricchezza del paese*.
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Tenendo per buono il Paradosso di Easterlin, il fatto che la felicità auto-dichiarata rimanga stabile all’aumentare del reddito non ci viene dato sapere cosa succederebbe al livello di felicità se il reddito si stabilizzasse.
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Inoltre c’è da ricordare, come succede in molti paesi ad alto reddito, che la stagnazione dei salari sfocia in conflitti sociali e xenofobia.
Le nostre economie si sono evolute in una prospettiva di crescita ma hanno finito per dipenderne.
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Ora che abbiamo sentito le argomentazioni del gruppo “bisogna continuare a crescere” e quelle del gruppo “bisogna prepararsi all’atterraggio”, quale potrebbe essere la soluzione più efficace?
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Ha provato a tirare le fila Martin Wolf autorevole giornalista finanziario, con il suo articolo sul Financial Time, ponendo sul tavolo del dibattito alcune riflessioni:
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“Il punto più importante dei dibattiti sui cambiamenti climatici e sull’approvvigionamento energetico è che riportano la questione dei limiti. Ecco perché il cambiamento climatico e la sicurezza energetica sono questioni così importanti dal punto di vista geopolitico.
Perché se ci sono limiti alle emissioni, potrebbero esserci anche limiti alla crescita. Ma se ci sono davvero dei limiti alla crescita, le basi politiche del nostro mondo vanno in pezzi. Inoltre il rischio è che possano riemergere intensi conflitti distributivi – anzi, stanno già emergendo – all’interno e tra i paesi.
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La risposta di molti, in particolare ambientalisti e persone con tendenze socialiste, è di accogliere tali conflitti. Questi, credono, sono i dolori del parto di una società globale giusta. Sono fortemente in disaccordo. È molto più probabile che sia un passo verso un mondo caratterizzato da conflitti catastrofici e repressione brutale. Questo è il motivo per cui condivido la risposta ostile dei liberali classici e dei libertari alla nozione stessa di tali limiti, poiché li vedono come la campana a morto di ogni speranza di libertà interna e relazioni estere pacifiche.
Gli ottimisti credono che la crescita economica possa continuare e continuerà. I pessimisti credono o che non lo farà o che non lo farà se vogliamo evitare la distruzione dell’ambiente.
Penso che dobbiamo cercare di sposare ciò che ha senso in queste visioni opposte.
È vitale per le speranze di pace e libertà che sosteniamo l’economia mondiale a somma positiva.
Ma non è meno vitale affrontare le sfide ambientali e di risorse che l’economia ha lanciato.
Sarà difficile”.*
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La prossima volta vedremo come Kate Raworth ci farà uscire da questo dilemma molto complesso.
Se ti piace questo argomento, condivi l’articolo! Grazie.
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Legenda relativa ai link:
* fonte citata nel libro “Economia della Ciambella”
** approfondimento suggerito da Culturaintour
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⭕ In crescita, verso l’infinito e oltre
11/06/2021, in Economia della ciambella
Lʼeconomia della ciambella di Kate Raworth – puntata 19
Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo
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7a mossa, Essere agnostici sulla crescita
Passare da “dipendenti”
a “agnostici riguardo alla crescita”
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In salita, verso l’infinito e oltre
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L’obiettivo per il XXI secolo è entrare nella Ciambella cioè nello spazio sicuro e equo mettendo fine a disuguaglianza e degrado ambientale. Due piaghe che le economie in crescita non hanno saputo guarire.
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Nella puntata 7 abbiamo parlato del Pil mettendo in discussione il fatto che sia l’indicatore migliore per indicare il successo di un’economia. La questione però non è solo andare oltre il suo utilizzo perché resta l’ostacolo di dover superare l’assuefazione finanziaria, politica e sociale sulla crescita del Pil.
Kate Raworth spiega che bisogna creare economie che siano agnostiche riguardo alla crescita ossia avere una mentalità che porti a progettare un’economia per far prosperare l’umanità a prescindere dal Pil.
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Il XX secolo ci ha lasciato in eredità un’economia che necessita di crescere senza chiedersi se stesse creando prosperità o meno ed è per questo che ora abbiamo conseguenze sociali e ambientali molto gravi.
La svolta per il XXI secolo è di creare economie che facciano prosperare che crescano o no.
Diventare agnostici sulla crescita richiede perciò di trasformare quelle strutture finanziarie, politiche e sociali che hanno portato le nostre economie a puntare su una crescita continua, fino a dipenderne.
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Troppo pericoloso per disegnarlo
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Kate propone un gioco divertente e molto suggestivo.
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Se si dovesse chiedere a un economista di tracciare su un foglio l’andamento del Pil a lungo termine è molto probabile che si metta tracciare la celebre linea, nota come curva esponenziale, che sale all’infinito. Gli economisti mainstream puntano sul fatto che il Pil debba crescere periodicamente di una percentuale fissa, che sia del 2% o del 9%, purché in salita rispetto alla sua entità precedente.
Avremo quindi tra le mani un disegno con questa linea in salita, sospesa a mezz’aria.
Ma poi?
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Possiamo ipotizzare che sale all’infinito oppure che a un certo punto inizi ad appiattirsi e stabilizzarsi.
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La prima opzione è piuttosto imbarazzante perché la linea inizierà a crescere molto rapidamente perché siamo nell’ambito di funzioni esponenziali.
Per fare un esempio, se prendiamo un tasso di crescita del 10% di un qualcosa, alla fine del settimo anno sarà semplicemente raddoppiato.
Se vogliamo stare su un tasso ipotetico del 3% questo avverrebbe nel giro di 23 anni.
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Alle implicazioni che ciò porta, potrà sembra incredibile, ma non se ne parla. I libri di testo danno come obiettivo delle politiche economiche la crescita del Pil e non danno mai previsioni su un ciclo nel lungo termine perché costringerebbe gli economisti a confrontarsi sulle assunzioni più profonde riguardo alla crescita.
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Un’analisi tuttavia è stata fatta e risale al 1960 quando W.W. Rostow, economista americano, pubblicò “The Stages of Economic Growth” – Le fasi di crescita economica.**
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Secondo la teoria di Rostow lo sviluppo economico di un paese è un processo sequenziale a fasi (o stadi) di sviluppo.
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1.La società tradizionale
2.I presupposti per il decollo
3.Il decollo
4.La spinta al pieno sviluppo
5.L’era dei grandi consumi di massa
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Tutto inizia con la società tradizionale che basa le attività sul settore primario, agricoltura e artigianato. Vi è assenza di tecnologie.
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Con lo stadio 2 si diffonde l’idea – scrisse Rostow – che non solo il progresso sia possibile ma che il progresso economico sia una condizione necessaria per raggiungere alcuni altri scopi ritenuti positivi come dignità nazionale, profitto privato, benessere generale. L’avvio alla costruzione di infrastrutture per trasporti e comunicazioni, investimenti da parte di imprenditori e la creazione di tutte le condizioni per aprire ai bisogni dell’economia moderna.
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Arriviamo allo stadio 3, il decollo con la sua “crescita come condizione normale”: l’industria e l’agricoltura commerciale dominano l’economia.
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Spiegò Rostow: “Sia la struttura basilare dell’economia sia la struttura sociale e politica della società vengono trasformate perché sia possibile mantenere un tasso di crescita regolare”.
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La spinta al pieno sviluppo consente il fiorire di industrie moderne a prescindere dalle risorse di una nazione. Entriamo così nella fase 5, con l’era dei grandi consumi di massa.
Il modello Rostow lascia un po’ di suspense in riferimento alla questione che viene dopo e su cosa fare quando lo stesso aumento del reddito reale perde il suo fascino.
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Rostow ritenne saggio di non approfondire perché all’epoca stava per diventare consigliere di John F. Kennedy. E indovina cosa aveva promesso in campagna elettorale?
Una crescita economica del 5% e, comprensibilmente, Rostow avrebbe dovuto impegnarsi e mantenere il focus sul come far salire il Pil.
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Kate Raworth suggerisce una metafora molto efficace riguardo al volo dell’aereo-economia: l’aereo di Rostow decolla, si alza in volo con un tasso di salita costante e non si chiede più se e dove atterrerà mai.
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La star del palco con un ruolo inadeguato
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Passiamo alla seconda opzione del gioco con l’economista .
La nostra linea ad un certo punto tende ad appiattirsi e stabilizzarsi su un dato livello.
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Prima ancora che fosse inventato il Pil, i fondatori della teoria economica classica avevano elaborato il concetto che, come tutte le cose, la fine della crescita economica fosse inevitabile: da Adam Smith a David Ricardo o John Mill, seppure attraverso analisi diverse, tutti intravedevano una fase stazionaria.
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In particolare J. Keynes si spinse a dichiarare che “non è lontano il giorno in cui il problema dell’economia avrà il ruolo di secondo piano che gli compete e le arene della mente e del cuore saranno occupate o rioccupate dai nostri veri problemi – i problemi della vita e delle relazioni umane, della creazione e del comportamento e della religione”.*
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Gli stessi padri dell’economia classica, quindi, se, matita in mano, potessero proseguire la linea curva esponenziale, partirebbero dall’estremità proiettata verso il cielo e la linea comincerebbe a prendere un andamento graduale verso appiattimento.
Come risultato si avrebbe una raffigurazione a S, la cosiddetta “curva logistica”.
La storia della curva a S inizia nel 1838, quando Pierre F. Verhulst, matematico e statistico, ideò la curva di crescita logistica (o funzione logistica)**, come modello di crescita della popolazione mettendo in relazione l’aumento o diminuzione demografica in rapporto alla disponibilità delle risorse.
La curva a S si estese a molti ambiti scientifici come ecologia, biologia in cui la sua applicazione era funzionale a molti processi naturali.
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Non fu così per gli economisti per più di un secolo.
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Le cose cambiarono improvvisamente nel 1971 con la pubblicazione de “La Legge dell’Entropia e il processo economico” * di Nicholas Georgescu Roegen**, uno degli economisti ambientali più geniali. Con il suo lavoro, spiegava della necessità di un appiattimento della crescita dell’economia globale di fronte alla capacità della Terra di sopportare le pressioni sui suoi ecosistemi.
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Georgesch sintentizzava i suoi studi con una frase: “Coloro che credono fermamente che la crescita esponenziale possa durare in eterno in un mondo finito, o è un pazzo o è un economista”.
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Se l’umanità imparerà a muoversi nell’Antropocene senza spingere il nostro pianeta verso una condizione molto più calda, secca e ostile – ci rassicura Kate – anche le economie che creiamo potrebbero continuare a prosperare – non a crescere, ma a prosperare – per millenni, se le gestiremo con saggezza.
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La domanda che possiamo farci ora è:
A che punto siamo sulla curva della crescita?
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Il Pil mondiale dall’inizio del boom economico degli anni Cinquanta è cresciuto oltre di oltre 5 volte e le previsioni dicono che per il futuro continuerà al tasso del 3-4% circa all’anno.
Bisogna comunque tener conto che la crescita globale è costituita da tassi di crescita molto differenti tra le economie.
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È prevedibile che i paesi a basso reddito abbiano tassi di crescita economica molto elevati essendo nella “fase del decollo” come Rostow insegna.
Questi paesi sono in un punto della linea a S** che si appresta a salire. È fondamentale che questi paesi siano supportati a livello internazionale affinché partano con tecnologie avanzate e non inquinanti e con il modello lineare ossia degenerativo che conosciamo bene. Devono essere in grado di convogliare la crescita nella creazione di economie distributive e rigenerative per principio e cominciare a portare i loro abitanti nello spazio equo e sostenibile.
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Discorso diverso per i paesi industrializzati in cui l’aumento della popolazione è molto basso.** La crescita del Pil nei paesi ad alto reddito è molto rallentata e le disuguaglianze sono aumentate.
A livello globale l’impronta ecologica** dei paesi industrializzati mette in evidenza che, di anno in anno, si oltrepassa la capacità della Terra di garantire le risorse naturali – overshoot day** – poiché si produce e si consuma come se si avessero a disposizione quattro pianeti.
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È palese la contraddizione: da un lato i paesi industrializzati dichiarano di puntare a entrare nello spazio equo e sicuro della Ciambella e d’altro hanno ancora come obiettivo di far crescere il Pil e, per dirla con l’ironia di Kate Raworth, ci possiamo trovare a “distruggere il nido per nutrire il cuculo”.
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Le economie avanzate sono forse arrivate all’apice della curva a S?
È possibile una crescita verde?
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La prossima volta vedremo come risponde Kate Raworth.
Continua a seguirci e se trovi interessante l’Economia della Ciambella, condividi questo articolo!
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Legenda relativa ai link:
* fonte citata nel libro “Economia della Ciambella”
** approfondimento suggerito da Culturaintour
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⭕ Rigeneriamoci: ecco cosa serve
07/06/2021, in Economia della ciambella
Lʼeconomia della ciambella di Kate Raworth – puntata 18, seconda parte
Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo
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6a mossa, Creare per rigenerare
Passare da “la crescita ripulirà”
a rigenerativi per progetto
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Rigeneriamoci: ecco cosa serve
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In cerca dell’economista generoso
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Ma perché dovremmo dare aria pulita in città?
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È la reazione di una importante impresa di costruzioni a cui ha assistito Janine Benyus, studiosa di biomimesi durante la progettazione per il rinnovamento dei sobborghi di una grande città. La proposta di Benyus era quella di realizzare gli edifici i cui muri biomimetici avrebbero sequestrato CO2 e rilasciato ossigeno e filtrato l’aria circostante.
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È la mentalità di un modello capitalistico che ha come unica forma di valore quello finanziario e deve render conto solo agli azionisti.
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I progettisti rigenerativi invece si chiedono quali benefici potrebbero aggiungere ai loro interventi e a volte può essere anche molto redditizio.
Il riutilizzo e l’efficiente utilizzo delle risorse è nell’essenza dell’economia circolare e dunque un vantaggio economico.
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Perché si affermi la progettazione industriale rigenerativa è necessario che sia sostenuta innanzitutto da una progettazione economica rigenerativa e il processo di riprogettazione necessita di esperimenti innovativi.
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Il futuro circolare è aperto
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L’economia circolare per sua natura deve essere sviluppata creando conoscenza condivisa per liberare il potenziale della manifattura circolare. Per questo scopo è stato avviato l’Open Source Circular Economy (OSCE). È un network di innovatori, progettisti e attivisti che condivide saperi.
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I principi per una economia circolare veramente rigenerativa presuppongono trasparenza e sono:
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. creare prodotti facili da smontare, assemblare;
. progettare componenti di forma e dimensioni comuni;
. piena accessibilità alle informazioni sulla composizione dei materiali e sui modi per usarli;
. documentare la dislocazione e disponibilità dei materiali.
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Sam Muirhead, attivista per lo sviluppo di idee collaborative**, trasparenti ed etiche del movimento Free / Libre Open Source – con particolare attenzione alle arti – é l’ ispiratore dell’OSCE e afferma: “Ogni giorno i beni comuni della conoscenza crescono e diventano più utili. Una volta che le persone si impadroniscono dell’idea provano a creare nuove applicazioni. E questo vale anche per il potenziale dell’economia circolare” .
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Anche Janine Benyus, esperta di biomimesi, crede fortemente nei beni comuni della conoscenza. Ha aperto il sito asknature.org* e aiuta gli innovatori a imparare ed emulare modelli naturali al fine di promuovere la progettazione di sistemi umani, prodotti, processi e politiche sostenibili.
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Ridefinire il business del business
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“La responsabilità sociale del business è di incrementare i profitti”* questo era l’affermazione di Milton Friedman in un’intervista nel 1970*.
Anche se può sembra un’utopia non la pensava così Anita Roddick, grande imprenditrice visionaria, che nel 1976 anticipò un business socialmente e ecologicamente rigenerativo.*
Aprì inizialmente un negozio, Body Shop, in Inghilterra. Ciò che caratterizzava la produzione di cosmetici naturali di Anita Roddick era il fatto che erano a base vegetale, non testati su animali e la confezione (flacone e scatole) erano riutilizzata. Fu tra le prime aziende che pagavano un prezzo equo alle comunità in tutto il mondo per la fornitura di cacao, olio di noce brasiliana e erbe essiccate. Fu tra le prime aziende a investire nell’energia eolica.
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Gli affari andavano decisamente bene e così parte dei profitti erano destinati alla “The Body Shop Foundation” l’organizzazione impegnata per cause sociali e ambientali.
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Perché faceva tutto questo Anita Roddick?
Lo spiegava così: “Voglio lavorare per un’azienda che doni alla comunità e che ne sia parte.”
Quello che oggi si chiama “scopo vitale” di un’azienda.
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Anita Roddick ha dimostrato che un’azienda può essere molto di più del puro business anzi potremmo dire che il business del business sia contribuire a creare un mondo di prosperità.
Oggi le imprese più innovative si ispirano a questa visione, sono imprese che hanno uno scopo sociale o esercitano attività a beneficio della comunità, come le società benefit, rigenerative per principio.**
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La finanza al servizio della vita
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Un business con uno “scopo vitale” deve necessariamente avere una fonte finanziaria allineata con la mission e che si mettano in conto risultati a lungo termine per creare valori – umani, sociali, culturali e fisici – insieme a un equo ritorno finanziario.
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È quel che imparò anche Anita Roddick quando quotò in borsa la sua impresa: i dissapori con i suoi azionisti furono evidenti.
Come può essere finanziata un’impresa rigenerativa per realizzare il suo scopo vitale deve essere finanziata per adempiere?
È di questo che si occupa John Fullerton, un economista non convenzionale. Dopo una carriera di successo a Wall Street, dove era un amministratore delegato JPMorgan si dimise nel 2001 giungendo alla consapevolezza che il sistema economico è la causa della crisi ecologica ed è la finanza che guida il sistema economico. Fullerton è convinto che non basta limitare la finanza speculativa, occorre promuovere anche una finanza basata su investimenti a lungo termine.
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Per questo si è impegnato per progettare una “finanza rigenerativa” con l’obiettivo di utilizzare risparmi e crediti in investimenti produttivi che generano valori sociali ed ecologici nel lungo termine.
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Esistono esempi concreti di “banche rigenerative”* che hanno la missione di usare il denaro per generare cambiamenti positivi in ambito sociale, ambientale e culturale: la banca olandese Triodos oppure la Florida First Green Bank.
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Bisogna pensare a una finanza al servizio della vita: non solo riprogettazione degli investimenti ma anche riprogettazione della moneta. Come abbiamo visto qui.
Bernard Lietaer, espero di monete complementari, ha modificato radicalmente Rabot, il quartiere più fatiscente di Gand, in Belgio.* La sfida era di passare dal degrado a un quartiere piacevole in cui vivere con molto verde.
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La primo passo di Lietaer è stato di chiedere ai residenti cosa desiderassero. Alla risposta di avere piccoli orti sociali, un sito industriale abbandonato è stato frazionato e piccoli lotti sono stati dati ai cittadini dietro pagamento di un piccolo canone di affitto. La particolarità dell’operazione è che l’affitto era con una nuova moneta in “Torekes”, (“piccole torri” a evocare i palazzoni del quartiere).
Come potevano avere i Torekes i cittadini?
Facendo volontariato nella raccolta dei rifiuti, provvedendo alla messa a dimora di nuove piante, riparando gli edifici pubblici o condividendo l’auto per il trasporto collettivo. I Torrekas potevano essere usati per biglietti al cinema o comprare prodotti alimentari o lampadine a basso consumo.
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L’aspetto più interessante è che ha avuto l’effetto di integrazione sociale.
Questo è uno dei modi in cui si possono usare le monete complementari.
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Far nascere lo Stato partner
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Il ruolo dello Stato è fondamentale per consentire di abbandonare la progettazione degenerativa del business-as-usual e passare a quella rigenerativa utilizzando mezzi come: tasse e norme, assumendo il ruolo di investitore trasformato e potenziando i beni comuni.
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È consuetudine per i governi tassare “quello che può” anziché tassare “quello che deve” e questo fa la differenza. Come anticipato nel capitolo della progettazione distributiva, si ha un risultato diverso se si tassano le aziende quando assumono personale mentre si hanno agevolazioni fiscali per gli investimenti sull’acquisto di robot.
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Nel XXI secolo occorre il passaggio dalla tassazione del lavoro al tassare le fonti non rinnovabili potenziando i sussidi per le energie rinnovabili e per gli investimenti in efficienza. Ristrutturare gli edifici anziché demolirli consentirebbe un risparmio di acqua e materie prime.
Secondo lo studio “Economia circolare e benefici per la società”* commissionato dal Club of Rome, emerge che una progettazione rigenerativa significa creare nuovi posti di lavoro, vantaggi per il clima con le energie rinnovabili e efficienza delle risorse.
Tuttavia non ci si può affidare solamente alla progettazione industriale. Occorre una rivoluzione dell’energia pulita.
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Il governo cinese condivide la visione della ricercatrice Mariana Mazzucato, visto che il governo ha investito miliardi di dollari in un portfolio di aziende in energia rinnovabile.
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Esempi di Stato come partner che si assumono il ruolo trasformativo nella creazione di un’economia rigenerativa non sono molti. Esistono però molti esempi a livello di città. Una di queste è Oberlin in Ohio che si è prefissata l’obiettivo di essere tra le prime città americane a “impatto climatico positivo” sequestrando più CO2 di quella emessa. Il progetto si concretizza attraverso l’efficientamento dell’illuminazione municipale, energia rinnovabile, coltivando localmente il 70 percento del cibo, con la creazione di aree verdi urbane. La sostenibilità si estende su tutti i fronti anche attraverso l’educazione ambientale e la creazione di posti di lavoro. “Dobbiamo ricalibrare la prosperità basandoci sul funzionamento degli ecosistemi e su quello che posso effettivamente rigenerare” spiega David Orr, direttore del Progetto Oberlin ideato grazie a un pensiero sistemico. **
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L’era delle unità di misura viventi
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L’economia lineare che, ricordiamo , è figlia di una progettazione degenerativa che ha come unità di misura quella monetaria e il suo unico scopo è la crescita del Pil.
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La progettazione rigenerativa invece ha nuove unità di misura che riflettono la sua missione che è di promuovere la prosperità umana nel rispetto degli ecosistemi. Le nuove unità “viventi” tengono conto delle molti fonti di ricchezza – umane, sociali, ecologiche, culturali, fisiche – da cui scaturisce il valore di cui gli introiti finanziari sono solo una piccola frazione.
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Esempi concreti di “unità di misura della vita” si stanno sviluppando rapidamente.
Il progetto che abbiamo visto poco fa in questo articolo quello di Oberlin negli Stati Uniti – mira a migliorare la resilienza, la prosperità e la sostenibilità della comunità. Per misurare e monitorare l’avanzamento del progetto si serve di un sito web, “Environmental Dashboard”, che mostra in tempo reale il consumo di acqua, elettricità, le emissioni di carbonio etc.
Le misurazioni non riguardano solo le comunità ma anche le imprese attraverso specifici bilanci di sostenibilità.
I governi potrebbero sostenere e premiare le aziende rigenerative con riduzioni delle tasse e incentivi agli acquisti verdi.
Visto che la crescita illimitata ha causato enormi danni e non ha certo contribuito a “ripulire” l’ambiente, semmai ha aumentato l’impronta ecologica nel consumo di materiali e aumentando la pressione dei cambiamenti climatici, come dobbiamo porci nel XXI secolo di fronte al famigerato indicatore, chiamato Pil?
Per spostarci nello spazio sicuro e equo della Ciambella, dobbiamo essere agnostici rispetto alla crescita?
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Lo vedremo nel prossimi articoli. Continua a seguirci, stiamo per scoprire la 7a mossa per pensare come ad un economista del XXI secolo.
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Legenda relativa ai link:
* fonte citata nel libro “Economia della Ciambella”
** approfondimento suggerito da Culturaintour
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⭕ Diventare generosi per principio
04/06/2021, in Economia della ciambella
Lʼeconomia della ciambella di Kate Raworth – puntata 18, prima parte
Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo
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6a mossa, Creare per rigenerare
Passare da “la crescita ripulirà”
a rigenerativi per progetto
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Diventare generosi per principio
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Cosa fa una azienda di fronte alla presa di coscienza che la progettazione lineare degenerativa esercita una pressione molto pericolosa sui limiti fisici della Terra?
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Abbiamo un ventaglio di reazioni che, Kate, sintetizza in “Le Cose che le Aziende Intendono Fare”.
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Fino a pochi anni fa la più gettonata era la più facile: non fare niente.
Un’azienda deve fare profitti è la risposta, il modo di produrre è legale e il “business as usual” – come viene chiamato – andrà avanti fino a quando non verranno introdotte tasse ambientali o gli incentivi per cambiare.
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La sostenibilità per decenni è stata presa molto poco in considerazione ma ora la situazione sta cambiando velocemente.
I segnali che bisogna far qualcosa arrivano dai produttori come coltivatori di cotone, caffè, vino e tessitori di seta che dipendono da catene di forniture globali. L’innalzamento delle temperature mette a rischio le coltivazioni e stare a guardare questi cambiamenti non è più una strategia così intelligente.
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Si è passati quindi ad un’altra reazione. Fare ciò che ripaga grazie a misure per l’efficienza ecologica che tagliano i costi o rafforzano l’azienda: misure che portano ad esempio a tagliare emissioni di gas serra o ridurre l’uso dell’acqua costituiscono, nel processo, un aumento dei profitti. Queste compagnie ostentano i loro progressi rispetto ai concorrenti e magari vendono a un prezzo superiore i loro prodotti ma i loro progressi sono lontani da quel che c’è realmente bisogno di fare.
È molto probabile trovare in questa categoria le aziende che preferiscono guadagnare in reputazione con il greenwashing o addirittura frodando. Come il caso della Volkswagen nel 2015.**
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Arriviamo alla terza reazione: fare la propria parte nell’avvio alla sostenibilità.
Quando nazioni e aziende riconoscono l’entità degli interventi per tagliare le emissioni, ridurre l’uso dei fertilizzanti o consumo d’acqua passano alla fase successiva che è chiedersi quale deve essere l’entità di impegno nel ridurre quantità di anidride carbonica, consumo di acqua o di fertilizzanti.
Qui il rischio maggiore è che “fare la propria parte” si trasformi in “prendersi la propria parte” di diritto ad inquinare dal momento che in questo modo si ragiona ancora con la mentalità della progettazione lineare degenerativa. “il diritto ad inquinare” diventa la risorsa da accaparrare e si innescano i meccanismi per far pressioni sui politici o per trovare scappatoie nel sistema.
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Arriviamo alla quarta reazione che scaturisce da un necessario cambio di mentalità: non fare danni ossia “missione zero”.
Questo vuol dire produrre a impatto nullo e potrebbe essere un’utopia ma ci sono già aziende che funzionano a “energia zero” grazie ai pannelli solari. Oppure un sistema ingegnoso per “zero acqua”: un caseificio recupera il vapore rilasciato dal latte vaccino anziché prelevare acqua dalle falde.
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Perché puntare solo a “fare meglio”? – dice McDonough, architetto e designer **– si può ambire ad una progettazione industriale che non si limita solo a non prendere ma addirittura a dare.
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Abbiamo così introdotto la quinta auspicabile reazione: essere generosa rendendo l’impresa rigenerativa per progetto.
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Non siamo più nell’ambito de “Le cose da fare”.
Questo è un modo di stare al mondo: sentire la responsabilità di lasciare il mondo vivente in condizioni migliori di come l’abbiamo trovato.*
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Janine Benyus, esperta di biomimesi, suggerisce di utilizzare la natura come modello e prendere ispirazione dai cicli della vita.* Prendiamo il carbonio e impariamo a interrompere le nostre “esalazioni industriali di CO2 “ e, come fanno le piante, studiamo come “inalare” carbonio. Poi troveremo anche anche soluzioni per i cicli di fosforo, azoto e acqua.
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Non c’è più tempo ma è tempo di una progettazione fondata sulla generosità.
È giunto il momento che il bruco diventi farfalla.
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L’economia circolare prende il volo
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Possiamo dire addio al bruco con la sua economia lineare. L’economia circolare è rigenerativa per progetto perché sfrutta il flusso infinito dell’energia del sole e trasforma materiali in prodotti e servizi utili.*
Trasformiamo quindi l’economia seguendo il diagramma creato dalla Ellen MacArthur Foundation* che evoca proprio le ali di una farfalla.
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La vecchia mentalità “dalla culla alla tomba” che ha caratterizzato il XX secolo procedeva con l’estrazione di minerali e combustili fossili che diventavano rifiuti da bruciare. Il bruco-industriale prendeva e buttava.
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Vediamo ora come si trasforma in farfalla.
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La mentalità “dalla culla alla culla”* caratterizza l’economia circolare e funziona con energia rinnovabile – sole, vento. acqua e fonti geotermiche.
È detta “dalla culla alla culla” perché i rifiuti o meglio gli scarti non finiscono in discarica ma vengono considerati risorsa. Gli scarti di un processo produttivo – siano biologici che tecnici diventano “materie prime seconde”** di un altro processo.
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I materiali rinnovabili sono di due tipi:
biologici appartengono al ciclo di nutrienti derivanti da suolo, vegetali, animali.
tecnici se si tratta di plastica, materiali di sintesi, metalli, vetro, carta, etc.
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I materiali biologici devono circolare solo “nell’ala biologica” seguendo alcuni principi: i materiali prelevati devono rispettare i ritmi che la natura richiede per rigenerarli; sfruttare le molteplici fonti di valore nei cicli naturali; progettare i sistemi produttivi in modo che nulla vada perso.
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Per esempio per ottenere una tazza di caffè si utilizza solo l’1% di un chicco. Invece di buttare i residui e poi i fondi del caffè nel compost, si possono utilizzare per la produzione di altri prodotti dal momento che sono ricchi di cellulosa, lignina e zuccheri in numerosi altri impieghi e terminare con il compost che ha un ulteriore ruolo rigenerativo.
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Nell’altra “ala della farfalla” circolano invece solo i prodotti ottenuti con nutrienti tecnici e seguono i loro propri principi: devono essere progettati per essere ripristinati attraverso riparazione oppure riuso oppure rifacimento e, come ultima opzione, riciclo.
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Per esempio i telefoni cellulari, che mediamente solo utilizzati solo due anni, hanno al loro interno un tesoro di metalli preziosi come oro, argento, cobalto, rame e di elementi chimici (terre rare. Secondo uno studio, in Europa nel 2010 solo 6% è stato rigenerato, il 9% disassemblato per il riciclo e 85% è finito in discarica. In un contesto di economia circolare sarebbero progettati per essere smontati, aggiornati e ricondizionati e come ultima opzione, recuperati tutti i metalli dei componenti.
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Prendendo come modello la natura nasce così la simbiosi industriale.**
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Tuttavia è bene essere realistici: non potrà mai esserci un ciclo industriale in grado di recuperare il 100% delle materiali.
Il punto è che in un’economia degenerativa il valore è monetario e, in funzione di questo, per ogni cosa che viene prodotta si deve puntare a ridurre i costi e aumentare continuamente le vendite.
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Il risultato che si è avuto è un incessante flusso di materiali.
In un’economia rigenerativa invece il flusso dei materiali diventa un flusso circolare. Siamo immersi in un flusso costante di energia solare che dà la vita nella biosfera e dobbiamo sfruttare questa energia per ripristinare quello che abbiamo creato e rigenerare il mondo vivente in cui prosperiamo.
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La vera trasformazione risiede nel dare un nuovo significato al concetto di valore. Come disse il poeta John Ruskin “Non c’è altra ricchezza al di fuori della vita”.
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Benvenuti nella città generosa
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Non solo le fabbriche anche i paesaggi urbani possono essere rigenerativi per progetto così da creare “città generose”* dice Janine Benyus, insediamenti umani che si inseriscono nel mondo vivente.
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Seguendo un approccio ti tipo rigenerativo invece di adattare la natura ai propri modelli, avviene il contrario. L’architettura si ingegna per preservare e valorizzare gli ecosistemi e i cicli biologici, mantenendo caratteristiche di durabilità, resistenza e fruibilità.
Si possono progettare tetti su cui cresce cibo, che catturano l’energia del sole e che ospitano animali selvatici. Asfalti delle strade capaci di assorbire l’acqua dei temporali per rilasciarla lentamente nella falda. Edifici in grado di catturare CO2 e in grado di trasformare le acque di scarico in nutrienti per il suolo.
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Certamente non esistono ancora queste città in compenso sono partiti molti progetti sperimentali.
In Olanda per esempio si trova Park 20/20, basato sui principi “dalla culla alla culla”**: è stato progettato da William McDonough e costruito con materiali riciclabili, dotato di un sistema energetico integrato e di un impianto per il trattamento dell’acqua, i tetti oltre ad accumulare energia solare, raccolgono l’acqua e sono un habitat per gli animali selvatici.
Nel mondo ci sono villaggi, paesi e città che stanno adottando i principi della progettazione rigenerativa.
Il Bangladesh punta ad uno sviluppo sostenibile e a essere alimentato a energia solare.* Vengono organizzati corsi per la formazione di donne imprenditrici a cui viene insegnato come fare l’installazione e la manutenzione dei pannelli solari.
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Nel mondo ci sono molti di questi progetti ma sono ancora in una fase sperimentale.
Nel XXI secolo servono economisti responsabili e capaci di renderli realizzabili. Ma non solo.
Con il prossimo articolo vedremo, tra gli altri, il ruolo fondamentale della finanza e dello Stato.
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Grazie.
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Legenda relativa ai link:
* fonte citata nel libro “Economia della Ciambella”
** approfondimento suggerito da Culturaintour
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⭕ Quando sarò cresciuto, potrò pulire
01/06/2021, in Economia della ciambella
Lʼeconomia della ciambella di Kate Raworth – puntata 17
Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo
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6a mossa, Creare per rigenerare
Passare da “la crescita ripulirà”
a rigenerativi per progetto
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Quando sarò cresciuto, potrò pulire
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Nel 2015 in Germania Kate si trovò a conversare con uno studente indiano. Alla domanda se avesse scelto di studiare tecnologie ecocompatibili, scosse la testa:
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“No, l’India ha altre priorità. Non siamo abbastanza ricchi per permetterci di pensare a queste cose. Ora abbiamo altre priorità”
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Questo episodio è emblematico perché riassume la storia economica che circola da decenni: i paesi poveri sono troppo poveri per occuparsi dell’ambiente. È con la crescita economica che ci sono i mezzi per ripulire l’ambiente e rimpiazzare le risorse utilizzate.
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Ma questo è un proposito illusorio.
Molto meglio creare economie che siano rigenerative per progetto.
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Come era successo con la curva di Kuznets, quando abbiamo parlato de “la crescita livellerà”, all’inizio degli anni Novanta in una sorprendente analogia, gli economisti statunitensi Gene Grossman e Alan Krueger pensarono di aver trovato un’altra apparente legge economica del moto.
Notarono che in 40 paesi con la crescita del Pil, l’inquinamento prima aumentava e poi diminuiva. Mentre la curva di Kuznets era caduta nell’oblio, voilà un altro schema con una U capovolta e questa volta chiamato “Curva ambientale di Kuznets”.
Grossman e Krueger riconoscevano di avere a disposizione solo dati locali e non a livello globale e che riguardavano inquinanti di aria e acqua. Nei loro studi infatti non erano considerati dati agli impatti ecologici come emissioni globali di gas serra, perdita di biodiversità, deforestazione, sostanze chimiche utilizzate in agricoltura, consumo di acqua potabile.* Nonostante ciò dichiararono: “la crescita economia porta una fase iniziale di deterioramento seguita da una successiva fase di miglioramento”.
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Il messaggio venne ancor più enfatizzato da economisti come Bruce Yandle che affermò: “La crescita economica contribuisce a riparare i danni arrecati negli anni precedenti. Se la crescita economica fa bene all’ambiente, le politiche che stimolano la crescita (liberazione del commercio, ristrutturazione economica, riforma dei prezzi) dovrebbero fare bene all’ambiente”. *
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La filosofia “niente dolore, niente guadagno” era tornata: se volete acqua e aria pulite, foreste e oceani in salute, le cose dovevano andare peggio per poi andare meglio.
Le proteste degli ambientalisti furono ridicolizzate e vennero considerati inutili allarmismi i report che mostravano i danni agli ecosistemi provocati da una crescita forsennata.
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L’economia mainstream affermava che non vi era alcun collegamento diretto tra crescita economica e ambiente e vennero avanzate tre spiegazioni:
.1. con la crescita delle nazioni, i cittadini possono permettersi di prendersi cura dell’ambiente;
2. le industrie possono permettersi tecnologie più ecologiche;
3. i paesi più industrializzati saranno i primi a convertirsi dalla produzione ai servizi.
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Tuttavia, Mariano Torras (docente Università Adelphi NY) e James K. Boyce (ricercatore università della Tasmania) hanno condotto una ricerca mettendo a confronto i dati nazionali usati per creare la curva ambientale di Kuznets * e giungono a queste considerazioni:
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.1. cittadini non devono aspettare che il Pil cresca per chiedere aria e acqua pulite. La qualità dell’ambiente è migliore dove il reddito è distribuito in modo equo: anche e soprattutto nei paesi a basso reddito. Oltre all’equità, esiste più alfabetizzazione e i diritti civili e i politici vengono rispettati. Non la crescita economica tutela aria e acqua pulite ma il potere ai cittadini.
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2. Sono decisive le pressioni dei cittadini sui governi e aziende per ottenere standard più severi. Per lo più le aziende passano a tecnologie ecologiche se sono costrette dalla legislazione e non perché sono aumentate le entrate.
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3. I paesi industrializzati non convertono la loro attività in servizi eliminando così l’inquinamento ma semplicemente lo spostano altrove.
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Oggi, grazie ai progressi della contabilità dei flussi di risorse, tutti i dati omessi nella curva ambientale di Kuznets (gli impatti ecologici e i loro effetti a medio-lungo termine) danno un altro risultato. Risultato molto diverso da quello che è stato propinato per decenni.
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Ecco cosa accade.
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La buona notizia è che la UE e l’OECD – Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico – hanno dichiarato con un certo orgoglio che estrazione e lavorazione delle materie prime, nei territori dei paesi ad alto reddito, sono effettivamente diminuite con un aumento della produttività delle risorse senza intaccare la crescita del Pil. Quindi dovrebbe essere un buon segnale all’insegna della “crescita verde”.
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Ma la cattiva notizia arriva dalla visione olistica di Tommy Wiedmann, esperto di analisi dei flussi internazionali delle risorse, che dice: “Sembrerebbe che i paesi sviluppati siano diventati più efficienti nell’uso delle risorse in realtà restano ancorati a una base di materiali sottostante”.
L’indagine di Wiedmann porta a una prospettiva molto diversa da quella della Ue e OECD.
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Alcuni dati: dal 1990 al 2007 nei paesi ad alto reddito è cresciuto il Pil ed è cresciuta l’impronta ecologica. Stati Uniti, Gran Bretagna, Nuova Zelanda e Australia hanno avuto un incremento del 30%.
Spagna, Portogallo e Olanda hanno raggiunto un incremento del 50%
Il rapporto “Global Material Flows and Resource Productivity” realizzato nel 2016 dall’UNEP – Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente – evidenzia che il flusso di materia a livello globale è passato da 23 miliardi di tonnellate nel 1970 a oltre 70 miliardi nel 2010.
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Va da sé che se l’economia globale dovesse seguire questo trend non basterebbero tre pianeti. La curva ambientale di Kuznets diventa una montagna che l’umanità non può scalare perché non sopravviverebbe al suo picco.
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Affrontare l’economia lineare degenerativa
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Immagina un bruco. Questo bruco ingerisce cibo ad un’estremità ed espelle le sostanze di scarto dall’altra.
Con questo esempio Kate ci spiega il modello industriale lineare adottato negli ultimi duecento anni che consiste nel prendere-lavorare-usare-buttare. Questo modello si traduce in pratica con: estrarre minerali, metalli, combustibili fossili-lavorarli per ottenere prodotti-venderli ai consumatori-buttare i prodotti.
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È evidente che l’economia non è una questione di leggi da scoprire ma fondamentalmente è una questione di progettazione.
Il modello lineare, il “bruco-industriale” per capirci, ha generato enormi profitti e arricchito molte nazioni ma è degenerativo in quanto si scontra con il mondo naturale che prospera riciclando incessantemente carbonio, ossigeno, acqua, azoto e fosforo: i bio- elementi, base della vita.
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L’attività industriale ha interrotto questi cicli vitali provocando catastrofiche conseguenze:
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– estraendo e bruciando petrolio, carbone e gas dal sottosuolo si riversa anidride carbonica in atmosfera provocando l’effetto serra;
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-trasformando enormi quantità di azoto** e di fosforo** in fertilizzanti.
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-attuando deforestazioni destinate ad agricoltura e allevamenti e all’estrazione di minerali e metalli che, dopo averli trasformati in prodotti, finiranno in discariche generando rifiuti tossici per suolo, acqua e aria.
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La teoria economica mainstream chiama questi effetti dannosi, che oltre ad essere di tipo ecologico sono anche di tipo sociale, “esternalità negative”** e vanno risolti con strumenti basati sul mercato per mezzo di quote e tasse.
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La teoria quindi stabilisce, per le quote, un tetto massimo per l’inquinamento totale per poi assegnare “diritti di proprietà” con delle quote da non superare lasciando che sia il mercato a stabilire un prezzo per il diritto di inquinare. Oppure imporre tasse equivalenti al “costo sociale” derivante dall’inquinamento e lasciare che il mercato decida quanti inquinanti emettere.
Le implicazioni di queste politiche, per esempio in Germania, hanno dato effetti importanti. Hanno fatto aumentare i prezzi dei combustibili fossili facendo scendere i consumi e quindi le emissioni di carbonio e il denaro raccolto dalle tasse ambientali sul gas è servito principalmente a compensare le pensioni e le tasse sui salari.*
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Esistono tariffe differenziate anche per il consumo dell’acqua. In molti paesi del mondo a rischio siccità, il prezzo per il consumo dell’acqua varia quando si supera la quota stabilita che va oltre i bisogni essenziali (bere, cucinare, lavarsi). *
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Tuttavia nè quote, nè tasse e nè tariffe differenziate possono realmente alleggerire le gravi pressioni che l’umanità esercita sugli ecosistemi del pianeta.
Dal canto loro le aziende sono propense a chiedere tetti e permessi più ampi per incentivare le produzioni anche se a discapito dell’ambiente.
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I governi spesso per timore che la propria nazione perda in competitività non mettono in atto misure efficaci e i partiti politici temono di perdere l’appoggio del mondo imprenditoriale.
Quote e tasse è vero che sono punti di forza per cambiare il comportamento di un sistema ma sono misure ancora troppo deboli per limitare l’accumulo e ridurre il flusso di inquinanti.
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Fino ad oggi l’economia è stata impostata sulla progettazione lineare degenerativa per cui gli incentivi sui prezzi non cambiano la corsa verso l’esaurimento delle risorse. Negli anni Novanta l’architetto e visionario John Tillman scrisse “alla fine un sistema a senso unico distrugge il paesaggio dal quale dipende e divora le fonti della sua stessa sopravvivenza”.*
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Occorre dunque passare a un modello di impresa fondata su una progettazione rigenerativa e lo vedremo con il prossimo articolo.
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Legenda relativa ai link:
* fonte citata nel libro “Economia della Ciambella”
** approfondimento suggerito da Culturaintour
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⭕ Di chi è il tuo lavoro? I robot? E le idee?
01/06/2021, in Economia della ciambella
Lʼeconomia della ciambella di Kate Raworth – puntata 16, terza parte
Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo
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5a mossa, Progettare per distribuire
Passare da “la crescita appianerà le disuguaglianze”
a distributivi per principio
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Di chi è il tuo lavoro? I robot? E le idee?
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Nel XXI secolo abbiamo l’opportunità di trasformare le dinamiche del possesso della ricchezza e “di distribuire per principio”. Le aree su cui intervenire sono cinque.
Abbiamo già visto la terra e il denaro qui.
In questo articolo conosceremo l’impresa, la tecnologia e la conoscenza.
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Queste innovazioni contribuiranno a cambiare le economie da divisive a distributive e come effetto ridurranno povertà e disuguaglianze.
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3. Di chi è il tuo lavoro?
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Negli ultimi trent’anni, stiamo assistendo nei paesi ad alto reddito, a una stagnazione dei salari che sono, per lo più, rimasti fermi o addirittura calati nonostante le economie siano cresciute.
Gli stipendi dei dirigenti sono aumentati.
Discorso analogo per gli Stati Uniti: agli anni che vanno dal 2002 al 2012 è stato addirittura attribuito il nome di “Decade of flat wages“* , il decennio perduto dei salari.
La questione della stagnazione dei salari riguarda anche la Germania: negli anni in cui si è registrata una crescita dell’economia quasi record, i salari sono rimasti fermi.*
La disparità nasce da una questione di progettazione.
Chi raccoglie il valore generato dai lavoratori?
All’epoca i padri fondatori dell’economia avevano ben chiaro che si presentavano tre gruppi:
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.Lavoratori
.Proprietari terrieri
.Capitalisti
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Nel pieno della Rivoluzione industriale le imprese cedevano le azioni a ricchi investitori e una gran massa di lavoratori si offriva per dare la propria manodopera. Si andavano così delineano le classi sociali che detenevano un potere ben diverso tra loro.
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Mentre andava in auge la supremazia degli azionisti verso cui le aziende avevano l’obbligo primario di massimizzare il ritorno economico attraverso di dividendi** , i lavoratori venivano considerati come un fattore esterno all’impresa e visti come un costo da minimizzare.
La crescita del capitalismo azionario ha rafforzato questa cultura e ha dominato il XIX e XX secolo.
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Esiste un modello di impresa alternativo da applicare nel XXI secolo?
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L’analista Marjorie Kelly ha dedicato la sua carriera per studiare il reticolo di legami fra schemi proprietari, produzione e distribuzione della ricchezza.
L’attuale potere economico e la ricchezza sono in capo ad una minoranza e occorre ricercare – secondo il pensiero di Marjorie Kelly – una trasformazione: una proprietà privata che permetta una distribuzione.
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La proposta di Marjorie Kelly è una progettazione d’impresa chiamata generativa e si basa su due principi:
l’appartenenza radicata e la finanza azionaria.
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Immaginate che i lavoratori, invece di essere una “componente esterna” siano i proprietari dell’azienda.
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Immaginate che queste imprese invece di emettere azioni per gli investitori esterni, emettano bond promettendo un ritorno prestabilito e adeguato.
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Questo tipo di imprese, di proprietà dei lavoratori, e le cooperative esistono. Il movimento delle cooperative nacque in Inghilterra a metà del XIX secolo.
L’aspetto i interessante è che ci sono altre forme di pianificazione del business che si stanno aggiungendo a questo modello, ormai consolidato: di simili imprese occorre creare un ecosistema.
Imprenditori e avvocati innovativi e lungimiranti stanno riscrivendo gli attivi costitutivi e gli statuti delle società e questo vuol dire che si delineano obiettivi, strutture e diritti e doveri.
Riprogettare questi elementi significa riprogettare il dna del business e passare da un potere economico in mano a pochi a molti.
Questo nuovo network di imprese innovative sta operando affianco alle imprese tradizionali.
È vero, le aziende mainstream guidate dalla supremazia degli azionisti continuano a dominare e “ fondamentalmente dovremo cambiare il sistema che sta al cuore delle principali società – ammette Marjorie Kelly – ma bisogna partire da quello che è fattibile, che ravviva e che punta a vittorie più grandi in futuro”.
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4. Di chi saranno i robot?
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La rivoluzione digitale ha e avrà sempre più un impatto significativo in tema di lavoro, salari e ricchezza.
Finora ha generato due tendenze opposte: da un lato ha permesso lo sviluppo di intense collaborazioni grazie ai network a costi praticamente nulli. Pensiamo alla crescita dinamica dei beni comuni gestiti collettivamente. Chiunque abbia una connessione internet può informare, imparare e intrattenere a livello globale. Chiunque può accedere al circuito della moneta blockchain, acquistare o vendere energia rinnovabile.
Tali tecnologie sono l’essenza della progettazione distributiva: ognuno può diventare prosumer (prosumer è composto dalla parola producer e consumer) ed essere utente nell’economia peer-to-peer.
È anche vero che si sta verificando una dinamica del tipo “il vincitore prende tutto”: il web anziché essere un mezzo per promuovere e sviluppare una varietà di imprese e provider di informazioni, si è trasformato in monopoli digitali detenuti da colossi come Google, YouTube Apple, Facebook, Amazon, etc.
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L’altra tendenza è di sostituire le persone stesse con robot in grado di imitare gli essere umani con prestazioni migliori. Sono a rischio milioni di posti di lavoro e a livello globale.
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Quali politiche può applicare una progettazione distributiva per attenuare questa tendenza?
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Una soluzione è quella di tassare le aziende per l’uso dei robot.
L’utilizzo dei robot rappresenta una duplice perdita anche per lo Stato: non essendoci lavoratori si erodono le tasse sui salari e in più gli investimenti in macchine sono spese deducibili dalle tasse.
Ecco perché bisogna investire molto di più nella formazione professionale delle persone e sviluppare competenze e abilità non proprie dei robot: creatività, empatia, contatto umano, pensiero laterale. Caratteristiche che sono essenziali in molti impieghi come insegnanti della scuola primaria, diretti artistici, psicoterapeuti e tutti i lavori in ambito. artistico e sociale.
Da mettere in evidenza che molti lavoratori non avranno un salario sufficiente per vivere da qui la necessità di prevedere un reddito minimo per tutti.
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Un’altra soluzione è il modello proposto da Mariana Mazzucato.
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È lo Stato, nelle economie più avanzate, a farsi carico del rischio d’investimento iniziale all’origine delle nuove tecnologie. È lo Stato, attraverso fondi decentralizzati, a finanziare ampiamente lo sviluppo di nuovi prodotti fino alla commercializzazione. E ancora: è lo Stato il creatore di tecnologie rivoluzionarie come quelle che rendono l’iPhone così ‘smart’: internet, touch screen e gps. Ed è lo Stato a giocare il ruolo più importante nel finanziare la rivoluzione verde delle energie alternative.
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Lo Stato dovrebbe partecipare alla proprietà della tecnologia robotica con diritti sui brevetti in comproprietà pubblico-privato assegnando alle banche statali quote significative dei settori che usano tecnologie robotiche basate sulle ricerche finanziate dallo Stato.
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Con il massiccio e rapido ingresso dei robot, sono necessarie proposte innovative per dare equilibrio allo sconvolgimento del lavoro e quindi dei redditi: la ricchezza generata dalla produttività dai robot deve essere ampiamente distribuita.
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5. Di chi sono le idee?
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“Abbiamo fra noi uomini di grande ingegno, atti ad inventare e scoprire dispositivi ingegnosi: ed è in vista della grandezza e della virtù della nostra città che cercheremo di far arrivare qui sempre più uomini di tale specie ogni giorno.”
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Era marzo 1474, nella Repubblica di Venezia, venne promulgato lo Statuto dei brevetti accompagnato dalle parole che hai appena letto.
La storia dei brevetti inizia così e ne costituisce un primato a livello di legislazione mondiale.
Venezia infatti voleva premiare I famosi soffiatori di vetro con brevetti decennali con cui proteggere le loro creazioni dalle imitazioni.
Con il tempo però gli artigiani emigrarono portando e diffondendo il loro sapere in tutta Europa e in tutti i settori industriali.
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In una prima fase i regimi di proprietà intellettuale – brevetti, copyright e marchi registrati – diedero impulso alla Rivoluzione industriale. Con il tempo però il bene comune della conoscenza tendeva ad essere monopolizzato e oggi sta mettendo in evidenza un aspetto controproducente: l’abuso delle leggi a tutela della proprietà proprietà intellettuale sta soffocando l’impulso all’innovazione. Innovazione che invece si voleva promuovere.
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In realtà i brevetti sono a vantaggio delle grandi aziende più che all’avanzamento scientifico e dei piccoli innovatori.
La teoria economica mainstream afferma che è necessaria la protezione della proprietà intellettuale per difendersi dalla concorrenza e per poter recuperare i costi della ricerca per prodotti innovativi lanciati sul mercato.
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Ma non tutti la pensano così.
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Molti decenni fa è nato un movimento per l’open source** utilizzando un software gratuito – FOSS (Free and Open Source Software) e un hardware gratuito conosciuto come FOSH (Free Open Source Hardware).
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Questa nuova cultura fondata sulla condivisione della conoscenza ha dato un forte impulso a beneficio dello sviluppo di internet: open source permette a programmatori distanti di coordinarsi e lavorare allo stesso progetto. Wikipedia è un esempio.
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I paesi in via di sviluppo possono, attraverso l’utilizzo del FOSS, acquisire conoscenze tecnologiche e può essere favorito lo sviluppo di comunità locali di persone in grado di installarlo, utilizzarlo e magari migliorarlo.
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Le piccole e medie imprese anche con scarse risorse finanziarie possono realizzare FOSS e proporli sul mercato globale.
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Ma la progettazione open source ha enormi potenzialità a vantaggio delle comunità e delle istituzioni statali che avrebbero un ingente taglio dei costi.
Il consolidamento di una realtà collaborativa che sviluppi i beni comuni ha bisogno del sostegno delle politiche statali così come è stato per lo sviluppo del capitalismo.
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Come si può concretizzare il potenziale dei beni comuni?
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Ecco i 5 fondamentali:
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1. investire nell’ingegnosità umana (imprenditoria sociale, problem solving, collaborazione nelle scuole e nelle università) con la finalità che i giovani riescano a creare network open source mai avuti prima;
2. la ricerca finanziata con fondi pubblici diventi conoscenza pubblica escludendo la possibilità di bloccarla con brevetti, copyright;
3. monitorare le aziende perché non ci siano brevetti falsi o copyright che violino i beni comuni della conoscenza;
4. finanziare con fondi pubblici spazi e strumenti dove gli innovatori “comunitari” possano sperimentare la produzione di hardware open source;
5. promuovere la diffusione di organizzazioni civiche – da società cooperative a Comitati di studenti – affinché si realizzino una pluralità di “nodi” che diano vita a network peer-to-peer.
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Diventare globali
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Il mondo nel suo complesso mantiene un alto livello di disuguaglianza all’interno di ciascuna nazione così come tra nazioni. Questo spinge l’umanità fuori dallo spazio equo e sicuro della Ciambella.
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Nel XXI è necessario considerarci parte di una comunità globale e far emergere la potenzialità della progettazione distributiva.
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La migrazione è uno dei sistemi più efficaci per ridurre la disuguaglianza globale: i trasferimenti di denaro inviati alle famiglie a casa da parte dei lavoratori partiti in cerca di fortuna in paesi stranieri rappresenta una fonte vitale per le economie delle comunità d’origine.
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Tuttavia bisogna ricordare che esiste un’organizzazione per la redistribuzione finanziaria. È l’ODA – Overseas Development Assistant, promossa dall’OCSE e nata nel 1970. L’impegno dei paesi più ricchi era quello di dare un aiuto finanziario, a lungo termine, ai paesi poveri a sostegno del loro sviluppo economico, sociale e politico.
Al 2013 le aspettative sono state disattese e i fondi arrivati risultavano la metà di quelli previsti.
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Lo scarso apporto di risorse è spesso giustificato dai paesi ad alto reddito sostenendo che gli aiuti venivano mal spesi o oggetto di abuso da parte governi corrotti.
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Una soluzione, dunque, potrebbe essere quella di destinare una parte dei fondi direttamente alle persone che vivono in povertà cosi che possa fungere da reddito minimo. Secondo alcuni studi sui piani di trasferimento, specie in Kenya, emerge che le persone che possono contare su una base di sicurezza economica per i momenti di difficoltà tendono a lavorare più sodo e a cogliere più opportunità.
Va detto che questi introiti che giungono dall’esterno devono essere necessariamente complementari alle politiche statali e ai beni comuni e non devono sostituirsi ad essi.
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L’obiettivo più efficace è arrivare ad una tassa globale sulla ricchezza personale estrema: ci sono più di 2000 miliardari sparsi nel mondo. Una tassa annuale sulla ricchezza pari a solo l’1,5% del loro patrimonio porterebbe a un ammontare di 74 miliardi di aiuti.
Per non parlare di una tassazione a carico delle industrie dannose, una carbon tax globale a tutta la produzione del petrolio, carbone e gas, una tassa globale sulle transazioni finanziarie per frenare il commercio speculativo.
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Certo queste soluzioni possono sembrare utopistiche ma lo erano anche l’abolizione della schiavitù, il diritto di voto alle donne, riconoscimento di diritti civili agli omosessuali.
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La regola per il XXI secolo è dunque l’accesso universale ai mercati, ai servizi pubblici, ai beni comuni globali.
Il potenziale di un network della conoscenza è incredibile.
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Per fare un esempio, si può ricordare la sorprendente e commovente storia di Wiliam Kamkwamba,** un ragazzo malawiano che abbandonò la scuola nel 2001 a 14 anni perché la famiglia era indigente.
Lui continuò a studiare in biblioteca e dopo aver letto un libro sull’energia riuscì a costruire per la sua famiglia una pala eolica utilizzando materiali recuperati in discarica. Presto nel suo villaggio si conobbe l’invenzione e la gente andava da lui per ricaricare i cellulari.
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L’ingegnosità di William è a lieto fine perché dopo questo evento arrivarono i giornalisti e la notorietà gli ha permesso di ricevere finanziamenti: si è laureato negli Stati Uniti e oggi è un inventore pluripremiato.
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Wiliam ha creato una piattaforma digitale per innovatori in Malawi.
Il network consentirà di risolvere molti problemi in Africa.
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E torniamo al motto di Arnold Schwarzenegger “niente dolore, niente guadagno” e alla curva di Kuznets: le economie eque non emergono dalla povertà dopo un processo di sofferenza sociale ed economica.
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La progettazione distributiva porta a un cambiamento radicale nella mente degli economisti che devono focalizzarsi non solo sulla redistribuzione del reddito ma della ricchezza costituita da: potere di controllare terreni, creare denaro, imprese, tecnologie e conoscenza.
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C’è un’altra progettazione da mettere in atto oltre quella distributiva: la progettazione rigenerativa e la vedremo con la prossima puntata.
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Condividi conoscenza anche tu. Condividi questo articolo per far conoscere le sette mosse per il XXI secolo.
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Legenda relativa ai link:
* fonte citata nel libro “Economia della Ciambella”
** approfondimento suggerito da Culturaintour
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⭕ Di chi è la terra? Chi crea il denaro?
30/05/2021, in Economia della ciambella
Lʼeconomia della ciambella di Kate Raworth – puntata 16, seconda parte
Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo
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5a mossa, Progettare per distribuire
Passare da “la crescita appianerà le disuguaglianze”
a distributivi per principio
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Di chi è la terra? Chi crea il denaro?
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Nel XXI secolo abbiamo l’opportunità di trasformare le dinamiche del possesso della ricchezza e “di distribuire per principio”. Le aree su cui intervenire sono cinque.
In questo articolo vedremo la terra e il denaro.
Queste innovazioni contribuiranno a cambiare le economie da divisive a distributive e come effetto ridurranno povertà e disuguaglianze.
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1..Di chi è la terra?
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Nel corso della storia dell’uomo, la proprietà è stata gestita nei modi più disparati e con le logiche più svariate. A partire dalla strategia di Enrico VIII nel XVI secolo di sopprimere i monasteri inglesi e svenderne le terre per arrivare alla visione di Henry George che ispirò la corrente economica nota come georgismo **, secondo la quale ognuno ha il diritto di appropriarsi di ciò che realizza con il proprio lavoro mentre tutto ciò che si trova in natura, principalmente la terra, appartiene all’intera umanità e proponeva un’imposta sul valore fondiario.
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Via via così nel corso dei secoli per arrivare ad Adam Smith che celebrava la capacità del mercato di auto-organizzarsi e promuoveva il passaggio della terra a proprietà privata. Garrett Hardin, dal canto suo, riteneva che gli individui utilizzano un bene comune per interessi propri e i diritti di proprietà non sono chiari introducendo nel 1968 il concetto di “Tragedia dei beni comuni” * **
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Elionor Ostrom, Nobel nel 2009**, contestò la tesi di Hardin con una serie di studi in merito all’auto-organizzazione dei beni comuni.** Ostrom e il suo team di ricercatori analizzarono l’uso condiviso delle risorse in varie comunità nel mondo e dall’indagine emerse che molte di queste comunità gestivano le loro terre e le risorse comuni meglio dei mercati e dei sistemi statali.*
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L’esperta ritiene che non esiste una panacea – ossia un rimedio universale che cura tutte le problematiche – per gestire bene la terra e le sue risorse: né il mercato, né i beni comuni, né lo Stato.
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2. Chi crea il nostro denaro?
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Perché i sistemi commerciali complessi possano funzionare è necessario qualche forma di denaro. Il valore del denaro non è una realtà materiale ma un concetto mentale.
Come siamo siamo arrivati a usare comunemente questo strumento?**
Il motivo è la fiducia. Il denaro è un sistema di mutua fiducia, di relazione sociale riconosciuto a livello collettivo.
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Il denaro che conosciamo, qualunque sia la sua valuta (dollari , euro o yen) ha una sola identità mentre invece esistono molte altre forme possibili e in base a come viene creato e al ruolo che gli viene assegnato, determina forti conseguenze sulla sua distribuzione.
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Tuttavia il progetto del denaro – come viene creato, quale significato gli viene dato e come viene usato – ha pesanti implicazioni sulla sua stessa distribuzione.
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La creazione di denaro che conosciamo noi è da attribuirsi alle banche commerciali che offrono prestiti o linee di credito che vengono per lo più utilizzati per investimenti: per esempio acquisto di beni quali case, terreni e prodotti di tipo finanziario come titoli o azioni.
Questo modello di investimenti non genera una nuova ricchezza da cui trarre una fonte di reddito ma punta su una rendita derivante dall’aumento di valore del bene stesso.*
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Solo una bassa quota di prestiti è collocata per lo sviluppo delle imprese produttive di piccole dimensioni.
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Occorre dunque riprogettare il ruolo del denaro che deve coinvolgere lo Stato, i beni comuni e il mercato e trasformare questa sorta di “monocultura monetaria” in un ecosistema finanziario.
Contando sull’esperienza storica della Grande Depressione degli anni Trenta e del crollo finanziario del 2008, le banche centrali dovrebbero riprendersi il potere di creare denaro e trasferirlo alle banche commerciali dietro garanzia di riserve pari al 100% dei prestiti che concedono. Questa procedura preverrebbe il nascere di bolle finanziarie che arrecano enormi danni sociali ed economici.
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Le banche statali inoltre potrebbero concedere prestiti a tassi di interesse agevolati per famiglie svantaggiate e promuovere progetti di infrastrutture verdi e sociali come sistemi per l’energia rinnovabile comunitari e accelerare la trasformazione tanto necessaria.
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Cosa possono fare i beni comuni per sviluppare il nostro ecosistema finanziario?
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Nel mondo esistono già valute complementari alla moneta nazionale ufficiale. In un’ottica di resilienza si possono trovare nuovi modi di creare denaro: una nuova moneta serve a dare una spinta all’economia locale, rafforzare il tessuto sociale, generare equità nella comunità e pagare lavori che non verrebbero retribuiti.
Una propria moneta locale, già sperimentata da anni in alcuni luoghi nel mondo, consiste nel creare un network composto dai commercianti all’interno di una comunità: ognuno di loro si impegna a comprare e vendere beni e servizi nel circuito nel network.
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Un’altra forma di moneta è “il tempo”: è su questo principio che nascono le Banche del tempo in cui ci si scambiano competenze, saperi e attività usando come misura di valore il proprio tempo.
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Le banche del tempo possono avere numerose finalità. In una ricca città svizzera è sta creata una banca del tempo in cui i cittadini over60 che vi partecipano accumulano crediti di tempo di cura aiutando i residenti anziani a svolgere piccole mansioni come fare la spesa cucinare e facendo loro compagnia. Tutto questo tempo dedicato agli altri costituisce una sorta di “pensione sotto forma di tempo” di cui si potrà usufruire per le proprie future necessità.
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Rimane il dubbio che simili soluzioni sviliscano l’istinto umano a prendersi cura degli altri senza condizioni perché, anche se in modo intrinseco, si basano su una ricompensa anche se non è il denaro vero e proprio.
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Con la tecnologia inoltre stanno emergendo nuove monete complementari – le criptovalute ** , Con l’invenzione di blockchain (catena a blocchi), una piattaforma digitale decentralizzata peer-to-peer che consente di tenere traccia di tutte le forme di valori che vengono scambiate tra le persone nel network.
Una moneta che usa la tecnologia di blockchain è Ethereum** che ha attivato micro-reti per lo scambio al suo interno, di energia rinnovabile.
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Questi sono solo esempi di riprogettazione della moneta che riguardano il mercato, beni comuni e lo Stato. È un invito a riconoscere il fatto che il modo in cui il denaro viene progettato – la sua creazione, il suo ruolo ha conseguenze sulla sua distribuzione. Occorre dunque mettere al centro di un nuovo ecosistema finanziario, il potenziale della progettazione distributiva.
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Seguici per scoprire le altre tre aree coinvolte nella progettazione distributiva.
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Legenda relativa ai link:
* fonte citata nel libro “Economia della Ciambella”
** approfondimento suggerito da Culturaintour
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⭕ Fare rete: l’importanza di mettersi insieme
29/05/2021, in Economia della ciambella
Lʼeconomia della ciambella di Kate Raworth – puntata 16, prima parte
Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo
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5a mossa, Progettare per distribuire
Passare da “la crescita appianerà le disuguaglianze”
a distributivi per principio
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Fare rete: l’importanza di mettersi insieme
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La curva di Kuznets è stata smentita.
Ora, se vogliamo portare tutti nella zona sicura ed equa della Ciambella è necessario un nuovo approccio.
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“Non aspettate che la crescita economica riduca la disuguaglianza perché non lo farà.
Invece, create un’economia basata sulla distribuzione.”
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Il nodo centrale è rimodulare la distribuzione del reddito, della ricchezza, del tempo e del potere. Indubbiamente è un obiettivo molto difficile ma emergono molte possibilità se si ragiona in termini sistemici.
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Per prima cosa Kate Raworth propone una nuova immagine che rappresenta la progettazione distributiva (vedi immagine sopra).
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Si tratta di un network diffuso i cui nodi, più grandi o più piccoli, sono interconnessi in una rete di flussi.
In natura queste strutture sono organizzate secondo frattali e riportare questo modello in un’economia può portare a una distribuzione più equa del reddito e della ricchezza.
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Cos’è un frattale?
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Il frattale è un “oggetto geometrico”** in cui un motivo identico si ripete in tutte le direzioni dando origine a strutture eccellenti per distribuire in maniera affidabile le risorse all’interno di un sistema.
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La natura è ricca di frattali: possiamo immaginare per esempio la chioma di un albero dove è facile notare come ogni singolo rametto riproduca in scala ridotta il proprio ramo e in miniatura l’albero nella sua grandezza.
I frattali, queste curiose forme geometriche, li troviamo ovunque: in un girasole, in un broccolo in un fiume e nella ramificazione del sistema respiratorio.
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Risorse (come energia, nutrimenti, materiali e informazioni) fluiscono in questi network tenendo conto di un equilibrio tra efficienza e resilienza.
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L’efficienza viene raggiunta quando un sistema ottimizza il suo flusso di risorse per raggiungere i suoi obiettivi.
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La resilienza si basa sulla differenziazione e sull’abbondanza di connessioni nei periodi di shock o cambiamento.
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L’equilibrio è molto importante.
Un eccesso di efficienza rende un sistema vulnerabile.
Un eccesso di resilienza lo rende stagnante.
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Per comprendere i network naturali, un team di ricercatori e teorici del network – Sally Goerner, Bernard Lietaer e Robert Ulanowics – studiarono le varie strutture e i flussi di risorse presenti negli ecosistemi in natura: se vogliamo imparare dai network naturali per creare un’economia prospera, dobbiamo considerare diversità e distribuzione.
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Un network economico diventa iniquo e fragile se gli attori più forti riducono la pluralità e la diversità degli attori piccoli e medi. Vedi ad esempio la situazione dei colossi bancari e delle multinazionali in tutti i settori merceologici.
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Come possiamo distribuire il valore (materiali, energia, conoscenza e reddito) in modo molto più equo?
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Ridistribuire il reddito e la ricchezza
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Nella seconda metà del XX secolo, le politiche volte alla ridistribuzione riguardavano:
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1.Tasse progressive su reddito e trasferimento di denaro
2.Protezione del mercato del lavoro (salario minimo)
3.Servizi pubblici come sanità, istruzione, edilizia sociale.
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Politiche fortemente minate dalla corrente neoliberista.
Tuttavia all’inizio del XXI si notano politiche ridistributive: a volte sono segnali e altre volte sono interventi concreti.
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Nei paesi più ricchi molti economisti mainstream ritengono opportuno innalzare le aliquote fiscali per i redditi più alti e tassare le rendite da capitale.
A livello globale alle aziende viene chiesto di introdurre un salario massimo per i dirigenti.
Alcuni governi, come in India, offrono un accesso garantito al lavoro a che ne abbia necessità.
Tuttavia queste politiche mirano alla distribuzione del reddito e non della ricchezza che lo genera.
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Secondo l’economista e storico Gar Alperovitz per affrontare la diseguaglianza alla radice bisogna democratizzare la proprietà della ricchezza: perché “i sistemi politico-economici sono in gran parte definiti dal modo in cui la proprietà viene detenuta e controllata.”
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Seguendo un modello sistemico integrato, nel XXI secolo emergono cinque possibilità di trasformare le dinamiche del possesso della ricchezza riconducibili a :
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1.Possesso della terra
2.Creazione del denaro
3.Impresa
4.Tecnologia
5.Conoscenza
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L’aspetto interessante è che alcune delle possibilità dipendono da riforme statali e quindi richiedono un processo di cambiamento a lungo termine.
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Altre possono essere avviate da movimenti grass-root ** ossia movimenti dal basso e posso iniziare immediatamente.
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Modificando le dinamiche della ricchezza si contribuisce alla trasformazione da economie divisive a distributive riducendo nel processo povertà e disuguaglianza.
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La prossima volta vedremo nei dettagli le cinque aeree per trasformare le dinamiche del possesso della ricchezza.
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Legenda relativa ai link:
* fonte citata nel libro “Economia della Ciambella”
** approfondimento suggerito da Culturaintour
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⭕ Lo Schwarzenegger pensiero in economia
28/05/2021, in Economia della ciambella
Lʼeconomia della ciambella di Kate Raworth – puntata 15
Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo
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5a mossa, Progettare per distribuire
Passare da “la crescita appianerà le disuguaglianze”
a distributivi per principio
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Lo Schwarzenegger pensiero in economia
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Nel campo dei culturisti negli anni Sessanta, il cui massimo esponente era Arnold Schwarzenegger e la massima in voga era: “Niente dolore, niente guadagno”. Questa filosofia sembra si addica perfettamente alla logica dell’economia del XX secolo: le nazioni devono sopportare l’inevitabile dolore sociale della profonda diseguaglianza se vogliono creare una società più ricca e più equa per tutti.
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Questo concetto paradossale porta anche molti politici ad accettare e giustificare misure di austerità che finiscono per amplificare i sacrifici proprio delle categorie meno abbienti con la conseguenza di portarci ancora più lontano dallo spazio sicuro e giusto della Ciambella.
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È opportuno che la filosofia degli economisti del XXI secolo invece consideri la crescente diseguaglianza come errore di pianificazione economica adoperandosi perché le economie siano più redistributive sul piano della ricchezza che deriva dalla proprietà terriera, dalla creazione del denaro, dall’impresa, dalla tecnologia e dalla conoscenza.
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Invece di affidarsi solo al mercato e alle soluzioni statali, è necessario dare un ruolo al grande potenziale dei beni comuni.
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Le montagne russe dell’economia
Fino a qualche decennio fa era facile individuare le persone a basso reddito e prive di mezzi minimi per vivere perché si trovavano nei paesi classificati dalla World Bank con un Pil inferiore a 1000 dollari/anno.
Questi stessi paesi oggi sono stati riclassificati dalla Word Bank in nazioni a medio reddito perché hanno migliorato il livello di vita. Quindi i tre quarti delle persone povere nel mondo ora risultano essere in paesi a medio reddito.
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Si tratta di paesi come Cina, India, Indonesia e Nigeria dove comunque la diseguaglianza sta aumentando.
Nei paesi classificati a basso reddito vivono 300 milioni di persone e si trovano in prevalenza dell’Africa Sub-sahariana.
Grandi disparità esistono anche in paesi ad alto reddito come gli Stati Uniti e Gran Bretagna.
L’eliminazione della povertà è tra le priorità dell’agenda 2030.
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Molti dei padri fondatori dell’economia e filosofi si sono interessati al tema della diseguaglianza: da Karl Marx a Alfred Marshall e Pareto.
Ognuno con la propria teoria.
Fino ad arrivare al 1955 quando Simon Kuznets ritenne di avere individuato la legge della diseguaglianza e la rappresentò in un grafico noto con il nome di “curva di Kuznets”**: come in una sorta di corsa sulle montagne russe, secondo Kuznets in un’economia in crescita, la disparità del reddito prima aumentava, poi si livellava per poi scendere.
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La sua conclusione dunque era che l’aumento della disuguaglianza fosse una fase inevitabile nel percorso della crescita economica.
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A questo punto possiamo riprendere le parole di Arnold: “Niente dolore, niente guadagno” e, con una vena sarcastica, chiamare questa filosofia economica “Schwarzenomic”.
Il grafico a “U” divenne un’icona nel modello dell’economia dello sviluppo rafforzando la teoria che i paesi poveri avrebbero dovuto concentrare il reddito nelle mani dei ricchi affinché potessero risparmiare e investire ed innescare così la crescita del Pil.
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W. Arthur Lewis, economista, promotore di questa teoria inventò il “modello di crescita come sviluppo” e si spinse ad affermare: “lo sviluppo deve essere anti-ugualitario”.*
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Negli anni Settanta Kuznets e Lewis ricevettero il Nobel per l’economia.
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La World Bank trattava la curva di Kuznets come legge economica per fare proiezioni su quanto tempo serviva per far scendere i livelli di povertà nei paesi a basso e medio reddito e così anche gli economisti continuarono a monitorare l’andamento della crescita e della disuguaglianza.
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Solo negli anni Novanta, avendo un lasso temporale sufficiente, si poterono analizzare i dati effettivi e il risultato fu che la legge della curva di Kuznets venne smentita dai fatti in quanto si erano verificati i più svariati scenari. In alcuni casi la disuguaglianza aumentò, poi diminuì e poi aumentò, in altri aumentò o diminuì senza più modificarsi.
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Insomma “il modello consisteva nell’assenza di un modello”.
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In alcuni casi la curva di Kuznets venne smentita in modo evidente.
Tra il 1965 e 1990 avvenne una sorta di miracolo: paesi come Giappone, Corea del Sud, Indonesia e Malesia ebbero una crescita economica accompagnata da una forte riduzione della diseguaglianza.
Questo importante traguardo fu possibile soprattutto grazie alla riforma dei terreni agricoli che consentì di far crescere il reddito dei proprietari dei piccoli terreni.
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Parallelamente ci furono enormi investimenti pubblici nella sanità e nell’istruzione e politiche industriali che fecero aumentare i salari bloccando allo stesso tempo i prezzi dei generi alimentari.
Questo dimostrava che la curva di Kuznets con la sua equazione “disuguaglianza=crescita” era evitabile.
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Nel 2014 l’economista francese Thomas Piketty presentò un’analisi sulle dinamiche della distribuzione nel sistema capitalistico.
Partendo delle domande “Chi guadagna cosa” e “chi possiede cosa” distinse due categorie:
1.nuclei che possiedono il capitale (terreni, case e beni finanziari) beneficiando delle rendite, dividendi e interessi.
2.nuclei che possiedono solo il lavoro che genera solo il salario.
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Confrontando i trend di crescita delle fonti di reddito sopra indicate, Piketty concluse che le economie occidentali (o altre simili) stanno arrivando a pericolosi livelli di disuguaglianza.
Il motivo è che la rendita da capitale ha avuto la tendenza a crescere più velocemente dell’economia causando una maggiore concentrazione di ricchezza.
Questo fenomeno si accentua ancora di più da lobby e influenze politiche che promuovono gli interessi di chi è già ricco.
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Piketty mise in evidenza che lo studio di Kuznets era stato condotto in un periodo in cui l’economia era prospera.
La disparità di reddito e la disparità di ricchezza negli Stati Uniti e in Europa erano diminuite nella prima metà del XX secolo come aveva rilevato Kuznets ma la tendenza a equalizzare ipotizzata nella logica dello sviluppo capitalistico si collocava in un’epoca storica molto particolare: ci si trovava con due guerre mondiali alle spalle e la Grande depressione. Il contesto vedeva scarsi capitali e i governi disposero ingenti investimenti pubblici nell’istruzione, nella sanità e nella sicurezza sociale e ciò diede lo slancio a un’economia fiorente.
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Perché la disuguaglianza è un fattore allarmante?
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I Paesi che presentano una forte disuguaglianza hanno implicazioni sistemiche non solo sul ceto povero ma danneggiano il tessuto sociale nel suo complesso a livello economico, politico, sociale, sanitario, ecologico.
Gli effetti si traducono nella realtà con abbandoni scolastici, delinquenza, malattie mentali, gravidanze adolescenziali, uso di droga, comunità disfunzionali, degrado ambientale, etc.
Quando i livelli di iniquità sono elevati è a rischio la stessa democrazia perché il potere si concentra nelle mani di pochi e mette sul mercato l’influenza politica.
Nel 2000 le parole schiette di Al Gore, ex vicepresidente degli Stati Uniti sintetizzano queste dinamiche: “La democrazia americana è stata manomessa e la manomissione consiste nel finanziamento delle campagne elettorali”.
La disuguaglianza contribuisce al degrado ecologico e mina una società perché erode il capitale sociale fondato sulle connessioni, la fiducia e le regole della comunità. Un’azione collettiva è determinante per chiedere una legislazione ambientale.
Numerose ricerche hanno dimostrato che la disuguaglianza non fa crescere le economie più velocemente ma anzi le rallenta.
Società più eque siano esse ad basso reddito che ad alto, sono più sane e più felici.
Il mito “niente dolore, niente guadagno” della curva di Kuznets è stato confutato.
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Non perderti la prossima puntata.
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Legenda relativa ai link:
* fonte citata nel libro “Economia della Ciambella”
** approfondimento suggerito da Culturaintour
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