⭕ Come creare equilibrio e prosperità

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Lʼeconomia della ciambella di Kate Raworth – puntata 10, prima parte

Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo

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2a mossa, Vedere l’immagine complessiva
Passare dal Mercato autosufficiente
all’Economia integrata

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Come creare equilibrio e prosperità

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La volta scorsa, abbiamo visto come è nato il diagramma di flusso circolare che ha dato origine al modello economico del XX secolo.

Ti riproponiamo il contesto storico.

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Samuelson alla fine degli anni Quaranta – subito dopo la Grande depressione e la Seconda guerra mondiale – si focalizzò sulla necessità di far riprendere a circolare il reddito, per consentire all’economia americana di ripartire.
Come fulcro del suo diagramma, Samuelson mise il flusso monetario e due fattori produttivi (lavoro e capitale).
L’aspetto naturale era totalmente assente.

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Va detto che nel XVIII secolo i fattori produttivi presi in considerazione erano, oltre al lavoro e il capitale, anche la terra intesa come agricoltura.
Infatti nel triennio 1756-1758 l’economista francese François Quesnay fondò la dottrina fisiocratica (da «fisio-», natura e «-crazia»,potere) , secondo cui l’agricoltura è la vera base di ogni altra attività economica. L’industria, che si limita a trasformare la materia prima in prodotti, e il commercio, che li distribuisce, vengono ritenute attività secondarie.

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Nel 1776 con Adam Smith, padre del pensiero economico classico, si chiude il periodo dei fisiocratici. Smith, pur ritenendo ricchezza di una nazione il clima e il suolo, si concentra sulla divisione del lavoro in quanto permette l’incremento della produttività e di conseguenza la ricchezza di una nazione.

Un’altra figura di rilievo del pensiero economico classico è David Ricardo che agli inizi del 1800, pur considerando preoccupante la crescente scarsità di terreno da coltivare nelle colonie, pose la sua attenzione al fattore lavoro.

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Si giunge alla fine del XIX secolo che vede progressivamente abbandonare, da parte degli economisti, la connessione tra sistema produttivo e sistema ambientale: le scoperte scientifiche e tecnologiche davano la visione ottimistica che la crescita potesse essere infinita.

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Nella prima metà del Novecento gli economisti preferiscono adottare un sistema economico lineare. Gli elementi considerati sono solo lavoro e capitale. È l’economia mainstream, termine coniato dallo stesso Paul Samuelson, tuttora insegnata nelle Università di Economia di tutto il mondo.

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Con una popolazione in continua crescita, la crisi ecologia, la deforestazione, i cambiamenti climatici e la scarsità di risorse naturali, le regole del gioco sono cambiate in modo perentorio.

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Dobbiamo fare i conti con una maggiore popolazione mondiale e sempre meno risorse a disposizione. Il pianeta è limitato e pure pesantemente compromesso nella sua capacità di rigenerarsi e assorbire gli impatti negativi dell’attività dell’uomo.

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I dati ci dicono che:

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1776, viene elaborato il pensiero economico di Adam Smith
popolazione mondiale quasi un miliardo di persone
un’economia 300 volte meno sviluppata di quella odierna;

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1948, viene elaborato il pensiero economico di Paul Samuelson
popolazione mondiale 2,5 miliardi di persone
un’economia globale 10 volte inferiore a quella attuale;

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2019, popolazione mondiale 7,7 miliardi

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2030 popolazione mondiate stimata 8,5 miliardi

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Oggi è opportuno porsi la domanda:
Cosa ci serve per vivere in modo dignitoso soddisfacendo i nostri bisogni?.

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Kate ha elaborato la risposta con il suo diagramma “Economia Integrata”: al contrario di Samuelson, torna a reintrodurre la Natura come fattore principale.

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Precisamente tiene conto di:

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Terra con mondo vivente, risorse ed energia del sole;
Società umana con la sua economia costituita da famiglie, Stato, beni comuni e mercato;
l’Economia e la circolazione dei flussi finanziari.

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Conosciamoli tutti nel dettaglio con la seconda parte della puntata 10.

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Ci leggiamo con la prossima puntata.

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⭕ Un uomo da dimenticare

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Lʼeconomia della ciambella di Kate Raworth – puntata 11
Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo

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3a mossa, Coltivare la natura umana
Passare dall’Uomo economico razionale
a Esseri umani sociali adattabili

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Un uomo da dimenticare

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Nell’immagine puoi vedere come Kate Raworth ha raffigurato l’homo economicus.

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Una delle storie più pericolose dell’economia del XX secolo è la rappresentazione dell’umanità come uomo economico razionale.

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Facciamo un salto indietro nel tempo per capire a quando risale la nascita di questa rappresentazione.

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Dobbiamo fare riferimento ad Adam Smith, il fondatore dell’economia politica liberale, con le sue pubblicazioni: nel 1759 The Theory of Moral Sentiments (Teoria dei sentimenti umani) e nel 1766 The Wealth of Nations (La ricchezza delle nazioni).

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Adam Smith pensava che l’uomo avesse una sua natura egoistica ma allo stesso tempo dotato di principi che lo fanno interessare alla sorte degli altri anche in forma disinteressata.

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Tuttavia il prototipo di individuo che combinasse l’aspetto egoistico e quello di propensione ad occuparsi dei suoi simili lo rendeva un personaggio complesso e imprevedibile che non poteva essere in sintonia con la politica economica.

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L’economia infatti necessitava di un uomo estremamente “razionale” con interesse esclusivo per la cura dei suoi propri interessi individuali capace di calcolo utilitaristico avendo come obiettivo la massimizzazione del proprio benessere (va precisato che il termine “razionale” in questo contesto non ha lo stesso significato nell’uso comune o nella filosofia o nell’etica).

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Il significato di razionalità riferito all’uomo economico è di perseguire i propri obiettivi con una mentalità “calcolatrice” avendo come obiettivo esclusivamente il proprio benessere.

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Nel 1844 l’economista John Stuart Mill affermò che l’economia politica non tratta il complesso della natura umana ma vede l’uomo solamente in quanto essere desideroso di ricchezza aggiungendo a questa rappresentazione il disprezzo per il lavoro e l’amore per il lusso.

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L’homo economicus per Mill era il modo in cui la scienza doveva necessariamente procedere.

Nel 1880 l’economista Charles Stanton Devas criticò aspramente Mill per aver dato un’astratta semplificazione della complessa realtà umana perché di fatto stava proponendo come modello un “animale cacciatore di dollari”.

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Nonostante le obiezioni, la teoria economica nel tempo a seguire, supportò il modello Homo economicus fino a plasmarne i comportamenti sociali e persino il linguaggio.

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Se si è fortemente convinti di una determinata natura umana, quali sono le conseguenze nella società?

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L’economista Robert H. Frank sulla base dei questa domanda, condusse una ricerca la cui conclusione è stata che “le nostre credenze sulla natura umana contribuiscono a plasmare la natura umana stessa” ossia diventiamo ciò che ci diciamo che siamo.

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Tendenzialmente gli studenti che hanno una formazione economica sono più egoisti rispetto agli altri.

Robert H. Frank, assieme a Thomas Gilovich e Dennis Regan della  Cornell University, nel 1993 furono impegnati in unindagine sul comportamento degli studenti che avevano una formazione economica**.

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Lo scopo era analizzare in quale misura l’esposizione al modello di interesse personale, proprio delle teorie economiche accademiche, potesse influenzare o alterare la condotta di un individuo.

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Dal risultato emerse che quasi il 61 percento degli studenti di economia mostrava una spiccata propensione ad essere egoista contro il 39 percento degli studenti di altre facoltà.

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A convalidare l’ipotesi secondo cui la formazione accademica influenzi in modo decisivo logiche comportamentali, vi è un altro studio condotto in Germania.

Nel 1997 B. Frank e G. Schulze di un’università tedesca, a seguito di una ricerca analoga, risultò che gli studenti di economia sono significativamente più corruttibili dei colleghi delle altre facoltà.

Nello specifico venne creata una situazione in cui gli studenti si trovavano di fronte alla scelta di perseguire il proprio interesse personale oppure il benessere sociale**.

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L’esperimento aveva come finalità di valutare quanto il livello di egoismo individuale prevalesse sul bene comune.
Risultò un netto distacco tra gli studenti di economia rispetto a studenti di altre facoltà.

I primi avevano spiccati comportamenti opportunistici.

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La tesi però aggiungeva anche un’altra ipotesi e cioè che gli studenti di economia scelgano questo tipo di studi perché già predisposti a una mentalità in cui domina il proprio tornaconto a discapito del benessere degli altri.

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Il fatto diventa inquietante se si pensa che il modello “uomo economico razionale” va oltre le aule universitarie e influenza il mondo reale, quello finanziario per esempio.

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Donald MacKenzie e Yuval Millo, sociologi nell’economia, ebbero a dire:

L’economia finanziaria contribuisce a creare nella realtà il tipo di mercati ipotizzati nella teoria e se le teorie sono sbagliate, i risultati sono catastrofici.”

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Il modello “uomo economico razionale” ha ridefinito anche il linguaggio.
Nel XX secolo è diventata una costante nella vita pubblica parlare di “consumatore” al posto di “cittadino”.

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“Bisogna fare attenzione a ciò che esprimono le parole – spiega Justin Lewis, analista dei media e della cultura – perché il cittadino ha un ruolo in ogni aspetto della vita, da quella culturale, sociale ed economica. Il consumatore invece trova una dimensione solamente nel mercato”.

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Non trovi interessanti questi studi?

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Continua a seguirci per scoprire cosa ci propone Kate Raworth.

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Legenda relativa ai link:

* fonte citata nel libro “Economia della Ciambella”

** approfondimento suggerito da Culturaintour

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⭕ L’umanità ideale in 5 passi… 1,2

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Lʼeconomia della ciambella di Kate Raworth – puntata 12, prima parte
Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo

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3a mossa, Coltivare la natura umana
Passare dall’Uomo economico razionale
a Esseri umani sociali adattabili

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L’umanità ideale in 5 passi… 1,2

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La scorsa volta abbiamo spiegato quanto sia importante definire nella nostra mente un’immagine precisa di ciò che vogliamo essere perché ciò determina ciò che diventiamo e, di conseguenza, come agiamo nella realtà.

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Ecco perché è essenziale che l’economia abbandoni come modello l’uomo economico e passi a considerare il genere umano nella sua complessità.

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Con questa prospettiva si potranno creare economie per prosperare e vivere nello spazio sicuro ed equo della Ciambella.

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Per creare la nuova immagine dell’umanità e lasciare la raffigurazione dell’uomo economico bisogna mettere in atto cinque cambiamenti dal momento che:

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1.siamo esseri sociali e riconoscenti (e non strettamente egoistici)

2.abbiamo valori fluidi (e non gusti fissi)

3.siamo interdipendenti (e non isolati)

4.siamo approssimativi (e non calcolatori)

5.siamo parte della biosfera (e non dominatori della natura)

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Bisogna tenere presente un aspetto rilevante in merito a questi cinque cambiamenti.

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Seppur si faccia riferimento a una gran quantità di esperimenti di psicologia comportamentale, le indagini risultano incomplete: gli studi sono condotti prevalentemente in paesi occidentali i cui ricercatori utilizzano “soggetti campione” che sono gli studenti delle loro stesse università.

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Questo vuol dire che le indagini danno una visione parziale del comportamento umano perché si basano principalmente sulla medesima appartenenza culturale che non corrisponde neppure alla maggioranza della popolazione globale.

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Ad oggi sono poche le ricerche che ci aiutano a comprendere l’origine così profonda della diversità di comportamenti tra culture e società.

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Joseph Henrich con la sua ricerca ci dice che i valori della cultura occidentale sono determinati e specifici piuttosto che universali o naturali.

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Per il suo lavoro –The WEIRDest People in the World* **– si è inventato l’acronimo WEIRD (Western, Educated, Industrialized, Rich and Democratic) ossia gente STRANA (occidentale, istruita, industrializzata, ricca, democratica).

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Possiamo però considerare come validi due presupposti.
Uno è che sicuramente la natura umana non corrisponde all’uomo economico razionale.
L’altro è che, fino a quando non vi saranno ricerche che diano una visione più completa dell’umanità che tenga conto di altre culture e organizzazioni umane, le cinque aree sopra descritte rappresentano fedelmente l’umanità occidentale.

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1. Da egoisti a socialmente riconoscenti

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Per capire questo aspetto della natura umana occorre risalire all’evoluzione dell’Homo Sapiens. Per motivi strettamente legati alla sopravvivenza, l’uomo si è evoluto come animale fortemente collaborativo. La capacità della nostra specie di comportarsi in modo prosociale può essere basata su meccanismi psicologici unici per l’uomo. Questi meccanismi includono la capacità di prendersi cura del benessere degli altri (preoccupazioni riguardanti gli altri), di “sentire dentro” gli altri (empatia) e di comprendere, aderire e far rispettare le norme sociali (normatività)* **.

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Nel DNA degli esseri umani vi è l’attenzione ai propri interessi ma esiste anche la propensione ad aiutare gli altri: caratteristiche che si traducono in attitudine alla condivisione e alla reciprocità.

Attraverso queste attitudini l’uomo ha sviluppato il commercio, a livello relazionale lo si vede dal semplice portare i bagagli di persone fragili a fare beneficenza o donando persino i propri organi.

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Per sopravvivere quindi abbiamo necessariamente imparato ad andare d’accordo e a collaborare*.

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Collaboriamo, però, a patto che la reciprocità sia rispettata altrimenti tendiamo a punire i trasgressori.

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Dare e avere: questi due elementi sanciscono un patto per garantire salda la cooperazione e la fiducia.
Nel mondo contemporaneo queste norme sociali, non a caso, sono utilizzate nei portali internet attraverso le valutazioni e/o le recensioni. Da un lato le aziende vogliono mostrare la propria reputazione per meritare fiducia e dall’altra gli utenti, attraverso le recensioni, manifestano la propensione umana a collaborare a difesa del “gruppo”.

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Come accennato il livello di reciprocità e le norme sociali variano tra diverse culture in base alla struttura dell’economia.

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Per chiarire quest’ultimo concetto facciamo un esempio.
I Nord americani vivono in un’economia di mercato marcatamente interconnessa e quindi è particolarmente alto il livello di reciprocità che diviene necessario per far funzionare l’economia.
Tale comportamento sociale è stato oggetto di studi sperimentali all’interno di tribù.

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I Machiguenga, un gruppo indigeno in Perù, soddisfano la maggior parte dei loro fabbisogni nell’ambito dei nuclei familiari con scarsi scambi con il resto della comunità.
Il risultato di questa struttura socio-economica, è che gli abitanti hanno sviluppato un basso livello di dipendenza comunitaria e quindi una scarsa propensione alla reciprocità.

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Al contrario è l’organizzazione dei Lamelara, una tribù in Indonesia la cui attività di sussistenza dipende dalla caccia alle balene che viene condotta in gruppi di una dozzina di uomini a bordo di una canoa.
L’esito della caccia è un successo collettivo determinato dal livello di cooperazione.
Inoltre, una volta instaurato un certo grado di fiducia, questa persiste ed esercita la sua influenza sulle relazioni economiche che si trasmette anche alle generazioni successive.

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I risultati delle indagini sul comportamento umano* condotte da Joseph Henrich fanno emergere che le norme sociali di reciprocità variano in funzione della struttura dell’economia generando implicazioni nei ruoli dei nuclei familiari, del mercato, dei beni comuni e dello Stato.

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2. Da preferenze fisse a valori fluidi

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Finora la teoria economica si è basata sul presupposto che le persone debbano avere gli stessi gusti a partire da quando si è bambini.

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La pubblicità forgia le menti sin dalla tenera età impiantando preferenze e desideri da soddisfare.

Gli adulti sono consumatori che hanno potere di acquisto e colmano preferenze già acquisite.

Ma com’è stato possibile tutto questo?

Dobbiamo risalire agli anni Venti e conoscere una delle figure più influenti del XX secolo: Edward Louis Bernays, geniale pubblicitario statunitense nonché nipote di Sigmund Freud**.

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Questo personaggio è stato uno dei padri delle moderne relazioni pubbliche, delle quali, già nei primi anni del Novecento, ne aveva teorizzato le principali regole fondanti.
Studiando gli scritti di suo zio Freud sui meccanismi di funzionamento della mente umana, Bernays ne riprese un concetto fondamentale su cui fondò il suo successo di pubblicitario: “c’è molto di più dietro la scelta di prendere le decisioni, non solo a livello individuale, ma soprattutto, a livello di gruppi”.

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“La manipolazione consapevole e intelligente delle abitudini e delle idee delle masse è un aspetto importante del funzionamento di una società democratica” scrisse nel suo libro “Propaganda”* pubblicato nel 1928.

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Formulò l’ipotesi secondo cui, più che le caratteristiche di un prodotto, influenzavano in modo incisivo le pubblicità che evocavano le emozioni inconsce delle persone tanto da guidare il comportamento delle masse.

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A lui si deve la tradizionale colazione americana con uova e bacon**. All’epoca ci fu un’intensa campagna pubblicitaria condotta per conto dell’azienda Beech-Nut packing Co, settore prodotti di carne suina.

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Nei suoi messaggi Bernays richiamava valori profondamente radicati negli americani, come libertà, potere benessere, associandoli a gusti o opinioni.

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Anche l’abitudine delle donne a fumare ci conduce a Bernays.
Nel 1928, George Washington Hill, Presidente dell’American Tobacco Company, intuì il potenziale che avrebbe potuto ricavare aprendo il mercato della sigarette alle donne e chiese aiuto a Bernays che studiò meticolosamente il suo piano.
Utilizzando lo slogan Torches of Freedom* ossia le “torce della libertà” indusse gran parte della popolazione femminile a fumare in un’epoca storica in cui era ritenuto inappropriato.

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Il fatto di poter fumare, come da copione, venne percepito come forma di liberazione per le donne, la loro possibilità di esprimere la loro forza e la loro libertà.

A partire dal 1980 Shalom H. Schwartz, psicologo sociale e ricercatore interculturale assieme ad altri suoi colleghi, condusse una lunga indagine su un’ottantina di paesi nel mondo.

Identificò un sistema motivazionale comune agli individui di tutte le culture che guida le scelte individuali.

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La ricerca, durata una decina di anni, si concluse con la formulazione de

La teoria della Struttura Psicologica Universale dei Valori** meglio nota come “La teoria dei valori”.

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Il sistema proposto da Schwartz è composto da dieci valori che vengono suddivisi in categorie che sono caratterizzate da similarità ma anche incompatibilità.

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Ne risulta una struttura di due dimensioni bipolari:

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Autotrascendenza comprende i valori di Universalismo e Benevolenza vs Autoaffermazione che comprende i valori di Edonismo, Successo, Potere;

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Apertura al Cambiamento che comprende i valori di Autodirezione, Stimolazione, Edonismo vs Conservatorismo che comprende i valori di Conformismo, Tradizione, Sicurezza.

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Questa scoperta quindi mette in evidenza tre punti:

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Il primo è che tutti i dieci valori sono presenti in tutti gli esseri umani e variano non solo da un individuo all’altro ma anche da una cultura all’altra;

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Secondo, ogni valore può essere attivato semplicemente se viene stimolato;

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Terzo, ognuno di questi valori cambia non solo nell’arco della vita di una persona ma nel corso di una giornata in base al ruolo e al contesto che ricopre un individuo.

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Da ciò si evince la complessità della natura umana che è ben lontana da quella ritratta con il modello dell’uomo economico razionale.

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Per conoscere meglio gli altri cambiamenti, non perderti la prossima puntata.

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Legenda relativa ai link:

* fonte citata nel libro “Economia della Ciambella”

** approfondimento suggerito da Culturaintour

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⭕ L’umanità ideale in tre immagini

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Lʼeconomia della ciambella di Kate Raworth – puntata 12 – terza parte

Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo

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3a mossa, Coltivare la natura umana

Passare dall’Uomo economico razionale

a Esseri umani sociali adattabili

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L’umanità ideale in tre immagini

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Kate Raworth ci esorta a coltivare la natura umana che abbiamo trascurato da troppo tempo perché impegnati a ricalcare il modello dell’uomo economico.

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Per poter vivere in armonia con il pianeta che è la “nostra casa”, dobbiamo ricordarci che: 

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1. siamo esseri sociali e riconoscenti (e non strettamente egoistici)

2. abbiamo valori fluidi (e non gusti fissi)

3. siamo interdipendenti (e non isolati)

4. siamo approssimativi (e non calcolatori)

5. siamo parte della biosfera (e non dominatori della natura)

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.Come abbiamo visto nei nostri precedenti articoli qui e qui, dobbiamo desiderare di cambiare per poterci garantire uno spazio operativo sicuro per l’umanità.

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Come possiamo attuare i necessari cambiamenti?

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Le politiche economiche tradizionali portano a credere che un modo affidabile per cambiare il comportamento delle persone sia quello di intervenire sui prezzi: per creare mercati, per assegnare diritti di proprietà o applicare leggi.

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In molti casi però avvalersi dei prezzi come soluzione risulta essere una leva troppo sopravalutata dagli economisti del XX secolo che hanno invece sottovalutato il ruolo dei nostri valori, senso di reciprocità, network ed euristiche.

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In alcuni casi si mettono a rischio situazioni o progetti proprio quando si dà loro un prezzo.

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Nel 1970 Richard Titmuss evidenziò nel suo libro “The Gift Relationship” * – La relazione del dono – un’indagine sulle donazioni di sangue:  emerse che la qualità del sangue era migliore in Gran Bretagna con i volontari senza compenso rispetto a quella degli Stati Uniti dove invece i donatori erano pagati.

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Quindi c’è da chiedersi: .

gli incentivi in denaro servono a rafforzare nelle persone “le motivazioni ad agire” o invece le spengono se si sostituiscono con il denaro?

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Il filosofo Sandel ha esposto le proprie preoccupazioni: il denaro può erodere valori e regole sociali trasformandole in regole di mercato.

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J. Rode,E. E. Gómez-Baggethun e T. Krause si sono occupati di questo fenomeno con la ricerca “Motivation crowding by economic incentives in conservation policy: a review of the empirical evidence”.*

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Il rapporto mostra che spesso iniziative politiche in ambito sociale – per esempio progetti di tutela ambientale che possono essere raccogliere rifiuti, piantare alberi o moderare il consumo di legname –  con incentivi monetari non danno il risultato sperato.

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Kate Raworth suggerisce di avvalersi di mezzi più efficaci per motivare i cambiamenti comportamentali che si fondano su reciprocità, valori, accorgimenti e network.

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Puntare su incentivi, network e regole

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Gli incentivi – intesi come spinte comportamentali o accorgimenti – e gli effetti del network spesso funzionano perché si basano su regole e valori come senso del dovere, rispetto e attenzione.

Se vogliamo fare un esempio per l’acqua e/o l’energia, sono sufficienti semplici accorgimenti come installare timer per la doccia e per l’illuminazione.

In questo modo negli edifici sia pubblici che privati si possono ridurre i consumi e/o evitare lo spreco di acqua o energia.

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Gli effetti del network influenzano notevolmente i comportamenti sociali ed ecologici. Per citare un esempio, quando la giovane attivista pakistana Malala Yousafzai divenne nota per il suo impegno contro la sopraffazione dei bambini e a favore dell’istruzione, ispirò milioni di ragazze a reclamare il diritto di andare a scuola.

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Per rendersi conto della forza dei valori insiti negli esseri umani, si può far riferimento all’indagine di un gruppo di ricercatori statunitensi che cercava il modo per incentivare comportamenti ecologici. 

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Vennero esposti alcuni cartelli in una stazione di servizio che invitavano gli automobilisti a fare un controllo gratuito delle gomme. 

Le scritte sui cartelli facevano leva su motivazioni differenti: alcune su quella del risparmio economico, altre sulla tutela ambientale e altre ancora sulla sicurezza stradale.

II risultati migliori si ebbero quando vennero esposti i cartelli che dicevano:  

“Ci tieni all’ambiente? Controlla la pressione delle gomme!”

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Richiamare i valori che possono far più presa fa una notevole differenza.

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Anche l’attivazione di norme sociali può avere effetti di ampia portata e alcuni esperti di comportamenti sociali sostengono che l’approccio più efficace consiste nel connettersi con i valori e le identità delle persone piuttosto che con il denaro.

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Ricominciamo a incontrarci

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La nostra sfida è abbandonare il ritratto dell’uomo economico.

A quali immagini sarebbe auspicabile  ispirarci per disegnare un nuovo autoritratto economico?

Lo ha scoperto Kate Raworth  che, nel corso del tempo, ha posto questa domanda a studenti, manager, politici.

Le immagini hanno un grande potere perché evocano valori molto forti e Kate ha rilevato che sono essenzialmente tre le figure che nel sentire degli intervistati descrivono l’umanità:

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una comunità perché noi esseri umani siamo una specie tra le più sociali e dipendiamo gli uni dagli altri;

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un seminatore-mietitore perché è una figura che ci porta al concetto di integrazione con tutto il mondo vivente dal quale dipendiamo;

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gli acrobati in quanto rappresentano la nostra capacità di avere fiducia, di rapportarci e di cooperare con gli altri per raggiungere risultati che da soli non si possono ottenere.

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Concludiamo con le parole di Kate Raworth:

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“Abbiamo già sprecato 200 anni osservando il ritratto sbagliato di noi stessi con l’uomo economico, con soldi in mano, calcolatrice in testa, natura sotto i piedi e un appetito insaziabile nel cuore.

È giunto il momento di diventare persone capaci di prosperare e di impegnarci a interagire tra noi e con questa nostra casa vivente che non è solo nostra.

Adam Smith affermava che l’uomo ama trasportare, barattare e scambiare ma diceva anche che noi e le società prosperiamo quando mostriamo la nostra umanità, giustizia, generosità e senso civico”.

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Proseguiamo la prossima volta per conoscere l’equilibrio meccanico.

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Legenda relativa ai link:

* fonte citata nel libro “Economia della Ciambella”

** approfondimento suggerito da Culturaintour

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⭕ Pronti alla danza dinamica? 2a lezione

, in

Lʼeconomia della ciambella di Kate Raworth – puntata 14, seconda parte

Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo 

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4a mossa, Comprendere i sistemi

Passare dall’Equilibrio meccanico

alla Complessità dinamica

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Pronti alla danza dinamica? 2a lezione

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Ora che stiamo imparando a diventare “pensatori sistemici”, lo abbiamo visto qui, non ci possiamo più stupire di quanto succede nelle nostre società e a livello globale con la dinamica della disuguaglianza.

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Nell’economia dell’equilibrio – ossia nell’economia mainstream – la disuguaglianza ha un’importanza marginale. Il focus è rivolto ai mercati che devono essere efficienti.

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In realtà viviamo in un mondo in disequilibrio, un mondo in cui entrano in gioco i feedback per cui si generano circoli virtuosi della ricchezza e circoli viziosi della povertà che fanno finire le persone agli estremi opposti nella distribuzione della ricchezza.

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Gli esperti di sistemi chiamano questo fenomeno la trappola del “successo a chi ha successo”: i vincitori continuano a vincere e i perdenti continuano a perdere: la teoria dell’equilibrio potenzia i feedback rinforzanti generando oligopoli se non addirittura monopoli.

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Come sosteneva l’economista Piero Sraffa sin dal 1926 molte imprese, perlopiù quelle che producono beni di consumo, operano in condizioni di costi decrescenti che permettono di porsi sul mercato a prezzi ridotti come se operassero in regime di monopolio. **

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La vantata concorrenza perfetta dell’equilibrio meccanico non esiste e questo emerge per esempio nel settore agroalimentare dove il commercio dei cereali è concentrato in soli 4 colossi.**

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Ti basta giocare a Monopoli per conoscere il sistema del “successo a chi ha successo”.

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Tutti i giocatori cominciano alla pari ma, quelli che per primi riescono a piazzare gli  alberghi nelle migliori proprietà, potranno accaparrarsi gli affitti dagli altri giocatori e quindi permettersi di comprare altri alberghi.

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Così finisce che più alberghi si possiedono più alberghi si possono comprare mandando in bancarotta gli altri.

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Pensare che le regole del gioco inizialmente prevedevano la cooperazione fra i giocatori.

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Elizabeth Magie,  l’inventrice di Monopoli, si ispirò  alle teorie di Henry George, un economista che osteggiava la proprietà privata della terra ** il quale sosteneva che ciò che si trova in natura appartiene a tutta l’umanità.

Nelle intenzioni di creare un gioco, Elizabeth Magie voleva denunciare l’ingiustizia derivante da proprietà detenute da pochi. Nel 1903, dopo molti anni di lavoro, il gioco venne terminato.

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Lo svolgimento del gioco era articolato in due fasi ognuna delle quali seguiva un proprio regolamento.

Una fase prevedeva una serie di regole con una visione per la “ricchezza condivisa” – ispirata alla proposte di Henry George che sosteneva una tassa sul valore del terreno – l’altra invece era indirizzata a una visione “monopolista” dove vince chi riesce a mandare in bancarotta gli altri.

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L’ approccio dualistico che aveva previsto Elizabeth Magie voleva essere uno strumento didattico volto a dimostrare che il primo insieme di regole era eticamente superiore e portava a risultati sociali completamente differenti se messi a confronto.

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Il “Monopoli” che conosciamo e che si è largamente diffuso in tutto il mondo però ha regole completamente diverse. Negli anni Trenta infatti, la Parker Brother acquistò il nome del brevetto del gioco “The Landlor’s Game” (“La strategia del proprietario terriero”) – nome originale che diede Elizabeth Magie – e lo rilanciò come “Monopoli” diventando quindi un nuovo gioco. Venne infatti mantenuta solo la versione “monopolista” semplificandola e modificando alcune regole.

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La stessa storia del Monopoli ha risvolti inquietanti** legati proprio all’ingiustizia e alla ricchezza a tutti i costi e sono emersi casualmente come spiegato con un articolo sul New York Times solo nel 2015.

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La dinamiche distributive, dopo essere state espresse con i giochi da tavolo, hanno trovato ampio spazio con simulazioni computerizzate. È quanto hanno fatto nel 1992 Joshua Epstein e Robert Axtell con il loro modello per la simulazione sociale.

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Come nascono le strutture sociali e i comportamenti di gruppo dall’interazione degli individui? **

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Partendo da questa domanda realizzarono una simulazione chiamata Sugarscape.** I comportamenti collettivi fondamentali come la formazione di gruppo, la trasmissione culturale, il combattimento e il commercio “emergono” dall’interazione dei singoli agenti seguendo poche semplici regole.

Anche in questo caso emerse che le dinamiche di un sistema sono complesse e non si possono ricondurre alla tesi che le disuguaglianze sul reddito riflettono il talento e/o il merito nella società.

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Il fenomeno secondo cui “chi ha, avrà sempre di più” è già noto da Duemila anni con il versetto del Vangelo di Matteo che recita:

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“A chiunque ha, sarà dato
e sarà nell’abbondanza.
Ma a chi non ha, sarà tolto
anche quello che ha”

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Le parole dell’apostolo riconducevano ai doni spirituali della fede di cui bisogna aver cura.

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Il mondo dell’economia, finanza e sociologia si richiama al concetto del Vangelo con il cosiddetto effetto Matteo** per spiegare il crescente divario e le dinamiche legati alla ricchezza e/o povertà che tendono ad accumularsi o amplificarsi.

La forbice della disuguaglianza** a livello globale è sempre più ampia. Occorre dunque entrare nello spazio equo e sostenibile della Ciambella.

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Tra poco spiegheremo le dinamiche dei cambiamenti climatici “usando” l’acqua nella vasca da bagno.

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L’economia mainstream considera “effetti collaterali” – positivi o negativi che siano – gli impatti derivanti dall’attività produttiva.

Questi sono considerati una preoccupazione marginale tanto che li definisce “esternalità”.

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Tuttavia dal momento che l’economia è incorporata nella biosfera non si possono ignorare gli effetti che provoca perché si amplificano – sotto forma di feedback – fino a bloccare il sistema economico stesso che li ha generati.

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Le cosiddette esternalità ambientali, come l’accumulo di gas serra nell’atmosfera, hanno innescato i cambiamenti climatici con conseguenze catastrofiche  che – a differenza di una crisi  bancaria – non danno la possibilità di porvi rimedio all’ultimo momento.

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Infatti, nel caso dei cambiamenti climatici, fermare le emissioni di CO2 non equivale a eliminarne l’accumulo: ipotizzando per assurdo di poter fermare all’istante le emissioni, la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera continuerà a generare gli effetti negativi sugli ecosistemi del pianeta.

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Per far comprendere ai suoi studenti l’alterazione dei cicli di feedback, in particolare la relazione tra emissioni di CO2 e concentrazione di CO2, John  Sterman – docente del MIT e scienziato dei sistemi – usò la metafora della vasca da bagno.

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La vasca da bagno rappresenta l’atmosfera, l’acqua del rubinetto le emissioni di CO2 e lo scarico della vasca sono le foreste e gli oceani.

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Ora vediamo cosa succede con la dinamica dei sistemi.

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L’acqua che esce dal rubinetto tenderà a riempire la vasca ma se ne andrà giù dallo scarico.

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Questo avverrà se il getto scorrerà lentamente. Ma se l’acqua dal rubinetto sarà abbondante, in poco tempo la vasca sarà colma perché dallo scarico non andrà via abbastanza acqua.

Allo stesso modo, le emissioni di CO2 prodotte dalle attività umane sono maggiori di quelle che i sistemi naturali (piante e oceani) riescono ad assorbire.

The carbon bathtub, immagine semplificata (con il permesso di pubblicazione di Climate Interactive)

Sterman disegnò la vasca per la prima volta nel 2009 (vedi qui):  allora i flussi annuali di carbonio in entrata in atmosfera erano di 9 miliardi di tonnellate mentre quelli in uscita, grazie all’assorbimento di foreste e gli oceani, erano di 5 miliardi. Questo significa che solo per compensare le emissioni di gas serra queste devono essere dimezzate.

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Secondo il prof. Sterman, più che maggior informazione, occorre un apprendimento esperienziale per comprendere le dinamiche dei sistemi complessi.** Partendo da queste considerazioni per stimolare lo sviluppo di un pensiero sistemico, John Sterman e i suoi colleghi hanno messo a punto il “C-Roads** (Climate Rapid Overview and Decision Support), un dispositivo computerizzato per aiutare i governi a visualizzare gli impatti delle loro politiche. C-Roads elabora istantaneamente le implicazioni a lungo termine derivanti dagli impegni nazionali presi per la riduzione delle emissioni di gas serra.

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Sperimentare direttamente gli effetti delle dinamiche dei flussi e degli assorbimenti ha un duplice obiettivo: consente di comprendere sia l’urgenza di intervenire, sia l’ampiezza della trasformazione energetica necessaria per rispettare il limite dei confini planetari della ciambella.

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Seguici con la terza e ultima parte della danza dinamica.

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Legenda relativa ai link:

* fonte citata nel libro “Economia della Ciambella”

** approfondimento suggerito da Culturaintour

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⭕ Pronti alla danza dinamica? 3a lezione

, in

Lʼeconomia della ciambella di Kate Raworth – puntata 14, terza parte

Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo 

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4a mossa, Comprendere i sistemi

Passare dall’Equilibrio meccanico

alla Complessità dinamica

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Pronti alla danza dinamica? 3a lezione

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Nella 2a lezione della danza dinamica abbiamo visto che la faccenda è molto critica poiché ci troviamo in una spirale crescente sia di disuguaglianza sociale che di degrado ecologico.

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Antiche civiltà –  come i Maya, gli abitanti dell’Isola di Pasqua gli indiani Anasazi, gli antichi Egizi, gli Angkor Wat in Cambogia, i Great Zimbabwe e così via – sono collassate e, secondo gli archeologi, alla base del fenomeno c’erano problemi ambientali.

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Non c’è ovviamente una sola ragione che spieghi il declino di una società, sostiene Jared Diamond ** il quale, per comprendere questo argomento molto complesso, ha condotto una lunga indagine sulla storia dei Normanni della Groenlandia, un popolo ricco e potente. Al termine della ricerca, Diamond ha individuato ben cinque fattori che ne hanno determinato l’estinzione.

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E le società di oggi? Cosa le rende vulnerabili?

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Diamond si spinge a dare due indizi.

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Il primo consiste nella divergenza tra gli interessi a breve termine della classe dirigente e quelli a lungo della società intera.

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L’altro è la difficoltà a prendere buone decisioni che però non sono in linea con i valori fortemente radicati e, da punto di forza, diventano punti di debolezza.

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Il pensiero sistemico può aiutarci a capire se, con il nostro modello sviluppo economico, la nostra società corre rischi?

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La risposta è affermativa e dobbiamo risalire al 1972 con una delle prime elaborazioni dell’economia globale che ha visto l’applicazione della dinamica dei sistemi.

Il Club di Roma **, un’associazione composta da scienziati, umanisti e imprenditori legati dalla comune preoccupazione per la situazione mondiale, commissionò al MIT – Massachusetts Institute of Technology – di condurre una ricerca per capire quali scenari si prospettavano con la progressiva crescita umana sul pianeta.

Lo studio si basava sulla simulazione al computer di vari scenari e individuava le conseguenze sull’ecosistema terrestre seguendo l’attuale modello di sviluppo proseguendo cioè con il business-as-usual **.

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Vennero prese in considerazione cinque variabili:

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. crescita demografica

. produzione alimentare

. industrializzazione

. inquinamento

. consumo di risorse non rinnovabili.

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Il rapporto venne pubblicato con il libro  “The Limits to Growth” * *. Donella Meadows, Dennis Meadows e altri ne furono gli autori.  Il rapporto portava alla conclusione che – in un mondo di dimensioni finite con risorse limitate associato a una continua crescita di variabili come inquinamento e popolazione – si sarebbe giunti al collasso nell’arco di cento anni.

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I risultati dello studio furono considerati un ingiustificato catastrofismo e le reazioni in tutto il mondo furono di grande indignazione. **

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Gli economisti mainstream derisero i criteri usati per le proiezioni affermando che tenevano poco conto del feedback equilibrante del meccanismo dei prezzi nei mercati. Se le risorse non rinnovabili dovessero scarseggiare, precisarono, i prezzi salirebbero determinandone un uso più efficiente, un maggior utilizzo di sostituti delle risorse scarse e nuove fonti di energia.

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Il ragionamento presentava una lacuna: a differenza di combustili, minerali e metalli che hanno un prezzo, il ruolo e gli effetti dell’inquinamento, non avendo un prezzo, non generavano alcun feedback diretto da parte del mercato.

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Dagli anni Settanta, periodo di pubblicazione del rapporto “I limiti dello sviluppo”, ad oggi abbiamo lasciato alle spalle parecchi decenni e gli scenari ipotizzati si sono rilevati profetici anzi, quello che era chiamato semplicemente “inquinamento” si è trasformato in cambiamenti climatici.

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Siamo all’inizio del XXI secolo e abbiamo già oltrepassato quattro confini planetari su nove.

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Miliardi di persone affrontano pesanti privazioni mentre l’1% possiede metà della ricchezza  finanziaria del mondo. 

Questo vuol dire che ci sono le condizioni per il collasso.

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Per correre ai ripari occorre:

passare dall’attuale economia che divide e danneggia l’ambiente

a un’economia progettata per distribuire e per rigenerare l’ambiente
ossia :

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..che distribuisce per principio perché fa circolare il valore di ciò che viene prodotto e non si limita a concentrarlo in un élite;

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.che è rigenerativa per principio perché vede le persone che partecipano attivamente alla rigenerazione dei cicli vitali della Terra in modo che l’umanità possa prosperare all’interno dei confini planetari.

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Per usare una metafora gli economisti devono dire “addio a pinze e benvenute alle cesoie”.

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Addio a un’economia “meccanica” che pensa di rimettere in equilibrio i mercati con controlli teorici e benvenuta a un’economia “biologica” in continua trasformazione perché soggetta ai cicli di feedback.

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Così come fanno i giardinieri che si prendono cura delle coltivazioni, dai semi alle piante, scegliendo il terreno giusto per farle crescere rigogliose fino alla maturazione * allo stesso modo gli economisti devono pensare – come dice Eric Beinhocker – alle politiche come a un portfolio adattabile di esperimenti che contribuiscono a modellare l’evoluzione dell’economia della società del tempo.

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Organizzare esperimenti su piccola scala con le politiche per provare una serie di interventi. Abbandonare quelli che non vanno bene e ampliare quelli che funzionano.*

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Politiche adattative sono cruciali di fronte alle odierne sfide ecologiche e sociali che sono inedite e in una società globalmente interconnessa.

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I sistemi complessi si evolvono attraverso innovazioni e deviazioni per questo bisogna dare spazio a nuove iniziative *: nuovi modelli di business, valute complementari e progettazione di open source, così da trovare un sistema che possa evolversi e adattarsi rapidamente.

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Nessuno sa cosa funzionerà e questi esperimenti sono uno strumento evolutivo che guida la trasformazione economica distributiva e rigenerativa di cui abbiamo bisogno.

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Il concetto dei “punti di influenza” invece ci giunge da Donella Meadows – autrice principale del rapporto “I limiti dello sviluppo”.

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I punti di influenza in un sistema complesso sono piccoli cambiamenti che conducono a un più grande cambiamento complessivo. Gli economisti mainstream si focalizzano su aspetti poco influenti per esempio sull’aggiustamento dei prezzi. Bisogna invece andare a intervenire bilanciando i cicli di feedback dell’economia o meglio ancora individuare lo scopo.

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Chiedersi sempre come si è arrivati ad una certa situazione, dove si vuol andare e chiedersi cosa funziona bene in un sistema: queste erano le indicazioni di Donella Meadows.

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Non siate interventisti che non pensano e distruggono le stesse capacità di mantenimento del sistema” – suggerì – “prima di migliorare le cose, fate attenzione al valore di quello che c’è già *

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Grande conoscitrice della danza dei sistemi socio-ecologici, sottolineava che i sistemi efficaci hanno tre proprietà che devono essere sapientemente gestiti:

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  • una giusta gerarchia,
  • auto-organizazione,
  • resilienza

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Giusta gerarchia

si manifesta quando i sotto-sistemi sono al servizio del tutto di cui sono parte.

Spieghiamo questo concetto con una metafora.

Le cellule epatiche sono al servizio del fegato, organo che è al servizio dell’organismo umano. Se queste cellule si moltiplicano rapidamente diventano un tumore e distruggono il corpo.

La giusta gerarchia in ambito economico significa per esempio, dare al settore finanziario il ruolo di essere al servizio dell’economia che a sua volta è a servizio della vita. *

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Auto-organizzazione

è la capacità di un sistema di rendere più complesse le sue strutture.

La metafora è una cellula che si divide oppure una città in espansione.

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Nell’economia gran parte dell’auto-organizzazione nel mercato avviene con il meccanismo dei prezzi (come sosteneva Adam Smith) ma questo fenomeno avviene anche con i beni comuni e i nuclei familiari (come sosteneva Elinor Ostrom. ** Questi tre settori possono auto-organizzarsi efficacemente e lo Stato dovrebbe sostenerli tutti e tre.

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Resilienza

è la capacità di un sistema di sopportare gli stress e di ritornare al suo stato iniziale o di adattarsi alla nuova condizione come accade, per esempio, alla tela di un ragno dopo una tempesta.

L’economia dell’equilibrio ha come obiettivo di massimizzare l’efficienza senza accorgersi che la poca flessibilità la resa vulnerabile.

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Meglio sviluppare la diversità nelle strutture economiche ne amplifica la resilienza rendendo l’economia più capace di adattarsi a shock e pressioni.

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Esiste un’etica nell’economia?

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George DeMartino è un economista che ricerca i fondamenti etici della teoria economica, della politica e della pratica economica professionale. **

Nel 2012 durante una sua conferenza DeMartino sostenne che “quando una professione cerca di avere influenza sugli altri, si assume necessariamente degli obblighi morali, che li riconosca o no”.

La principale regola decisionale negli interventi politico-economici è quella del “Maxi-max”: si considerano tutte le possibili opzioni politiche e si sceglie quella che sembrerebbe la migliore se funzionasse trascurando se realmente può funzionare e questa modalità si traduce con il danno provocato dalle politiche shock a base di privatizzazioni e liberalizzazioni del mercato.

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George DeMartino con il suo libro “The Economist’s Oath* – il giuramento degli economisti – si ispira espressamente al giuramento di Ippocrate ** per la medicina che guida i futuri medici con precisi principi etici. Così come la medicina ha perfezionato la propria etica professionale e ne ha sancito i principi così si può fare per l’economia.

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Ecco  quattro principi etici da tenere presente in una sorta di Giuramento dell’economista del XXI secolo: per guidare la formazione di ogni studente di economia e di ogni politico:

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1.operare al servizio della prosperità umana in un fiorente intreccio di vita riconoscendo tutto ciò che dipende da questo intreccio;

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2.rispettare l’autonomia delle comunità di cui si è al servizio assicurandosi di avere il loro coinvolgimento e consenso e considerando le diseguaglianze e differenze che possono presentare;

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3.essere prudenti nella pianificazione delle politiche minimizzando i rischi di danni specie in circostanze di incertezza;

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4.lavorare con umiltà rendendo trasparenti le assunzioni  e i limiti dei propri modelli e riconoscendo punti di vista alternativi.

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Nella parole di Donella Meadows: “Il futuro non può essere predetto ma può essere visualizzato e portato amorevolmente alla realizzazione. I sistemi non possono essere controllati ma possono essere progettati e riprogettati. Possiamo ascoltare quello che i sistemi ci dicono e scoprire come le loro proprietà e i nostri valori possano collaborare“. *

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Le attuali dinamiche dell’economia globale conducono al rischio reale di arrivare al collasso, dunque che gli economisti del XXI abbraccino la complessità e trasformino le economie locali e globali per renderle distributive e rigenerative.

È un progetto entusiasmante e – aggiunge ironicamente Kate Raworth – probabilmente anche Newton vorrebbe partecipare al lavoro.

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Seguici con la prossima falsa teoria dell’economia del XX secolo: la crescita livellerà.

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Legenda relativa ai link:

* fonte citata nel libro “Economia della Ciambella”

** approfondimento suggerito da Culturaintour

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⭕ Lo Schwarzenegger pensiero in economia

, in

Lʼeconomia della ciambella di Kate Raworth – puntata 15

Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo 

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5a mossa, Progettare per distribuire

Passare da “la crescita appianerà le disuguaglianze”

a distributivi per principio

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Lo Schwarzenegger pensiero in economia

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Nel campo dei culturisti negli anni Sessanta, il cui massimo esponente era  Arnold Schwarzenegger e la massima in voga era: “Niente dolore, niente guadagno”. Questa filosofia sembra si addica perfettamente alla logica dell’economia del XX secolo: le nazioni devono sopportare l’inevitabile dolore sociale della profonda diseguaglianza se vogliono creare una società più ricca e più equa per tutti.

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Questo concetto paradossale porta anche molti politici ad accettare e giustificare misure di austerità  che finiscono per amplificare i sacrifici proprio delle categorie meno abbienti con la conseguenza di portarci ancora più lontano dallo spazio sicuro e giusto della Ciambella.

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È opportuno che la filosofia degli economisti del XXI secolo invece consideri la crescente diseguaglianza come errore di pianificazione economica adoperandosi perché le economie siano più redistributive sul piano della ricchezza che deriva dalla proprietà terriera, dalla creazione del denaro, dall’impresa, dalla tecnologia e dalla conoscenza.

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Invece di affidarsi solo al  mercato e alle soluzioni statali, è necessario dare un ruolo al grande potenziale dei beni comuni.

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Le montagne russe dell’economia

Fino a qualche decennio fa era facile individuare le persone a basso reddito e prive di mezzi minimi per vivere perché si trovavano nei paesi classificati dalla World Bank con un Pil inferiore a 1000 dollari/anno.

Questi stessi paesi oggi sono stati riclassificati dalla Word Bank in nazioni a medio reddito perché hanno migliorato il livello di vita. Quindi i tre quarti delle persone povere nel mondo ora risultano essere in paesi a medio reddito.      

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 Si tratta di paesi come Cina, India, Indonesia e Nigeria dove comunque la diseguaglianza sta aumentando.

Nei paesi classificati a basso reddito vivono 300 milioni di persone e si trovano in prevalenza dell’Africa Sub-sahariana.

Grandi disparità esistono anche in paesi ad alto reddito come gli Stati Uniti e Gran Bretagna.

L’eliminazione della povertà è tra le priorità dell’agenda 2030.

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Molti dei padri fondatori dell’economia e filosofi si sono interessati al tema della diseguaglianza: da Karl Marx a Alfred Marshall e Pareto. 

Ognuno con la propria teoria.

Fino ad arrivare al 1955 quando Simon Kuznets ritenne di avere individuato la legge della diseguaglianza e la rappresentò in un grafico noto con il nome di “curva di Kuznets**: come in una sorta di corsa sulle montagne russe, secondo Kuznets in un’economia in crescita, la disparità del reddito prima aumentava, poi si livellava per poi scendere. 

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La sua conclusione dunque era che l’aumento della disuguaglianza fosse una fase inevitabile nel percorso della crescita economica.

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A questo punto possiamo riprendere le parole di Arnold: “Niente dolore, niente guadagno” e, con una vena sarcastica, chiamare questa filosofia economica “Schwarzenomic”.

Il grafico a “U” divenne un’icona nel modello dell’economia dello sviluppo rafforzando la teoria che i paesi poveri avrebbero dovuto concentrare il reddito nelle mani dei ricchi affinché potessero risparmiare e investire ed innescare così la crescita del Pil.

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W. Arthur Lewis, economista, promotore di questa teoria inventò il “modello di crescita come sviluppo” e si spinse ad affermare: “lo sviluppo deve essere anti-ugualitario”.*

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Negli anni Settanta Kuznets e Lewis ricevettero il Nobel per l’economia.

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La World Bank trattava la curva di Kuznets come legge economica per fare proiezioni su quanto tempo serviva per far scendere i livelli di povertà nei paesi a basso e medio reddito e così anche gli economisti continuarono a monitorare l’andamento della crescita e della disuguaglianza.

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Solo negli anni Novanta, avendo un lasso temporale sufficiente, si poterono analizzare i dati effettivi e il risultato fu che la legge della curva di Kuznets venne smentita dai fatti in quanto si erano verificati i più svariati scenari. In alcuni casi la disuguaglianza aumentò, poi diminuì e poi aumentò, in altri aumentò o diminuì senza più modificarsi.

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Insomma “il modello consisteva nell’assenza di un modello”.

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In alcuni casi la curva di Kuznets venne smentita in modo evidente.

Tra il 1965 e 1990 avvenne una sorta di miracolo: paesi come Giappone, Corea del Sud, Indonesia  e Malesia ebbero una crescita economica accompagnata da una forte riduzione della diseguaglianza. 

Questo importante traguardo fu possibile soprattutto grazie alla riforma dei terreni agricoli che consentì di far crescere il reddito dei proprietari dei piccoli terreni.

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Parallelamente ci furono enormi investimenti pubblici nella sanità e nell’istruzione e politiche industriali che fecero aumentare i salari bloccando allo stesso tempo i prezzi dei generi alimentari. 

Questo dimostrava che la curva di Kuznets con la sua equazione “disuguaglianza=crescita”  era evitabile.

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Nel 2014 l’economista francese Thomas Piketty presentò un’analisi sulle dinamiche della distribuzione nel sistema capitalistico. 

Partendo delle domande  “Chi guadagna cosa” e “chi possiede cosa” distinse due categorie:

1.nuclei che possiedono il capitale (terreni, case e beni finanziari) beneficiando delle rendite, dividendi e interessi.

2.nuclei che possiedono solo il lavoro che genera solo il salario.

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Confrontando i trend di crescita delle fonti di reddito sopra indicate, Piketty concluse che le economie occidentali (o altre simili) stanno arrivando a pericolosi livelli di disuguaglianza.

Il motivo è che la rendita da capitale ha avuto la tendenza a crescere più velocemente dell’economia causando una maggiore concentrazione di ricchezza.

Questo fenomeno si accentua ancora di più da lobby e influenze politiche che promuovono gli interessi di chi è già ricco.

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Il capitalismo genera automaticamente disuguaglianze arbitrarie e insostenibili che mettono profondamente a rischio i valori meritocratici sui quali si fondano le società democratiche”.

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Piketty mise in evidenza che lo studio di Kuznets era stato condotto in un periodo in cui l’economia era prospera.

La disparità di reddito e la disparità di ricchezza negli Stati Uniti e in Europa erano diminuite nella prima metà del XX secolo come aveva rilevato Kuznets ma la tendenza a equalizzare ipotizzata nella logica dello sviluppo capitalistico si collocava in un’epoca storica molto particolare: ci si trovava con due guerre mondiali alle spalle e la Grande depressione. Il contesto vedeva scarsi capitali e i governi disposero ingenti investimenti pubblici nell’istruzione, nella sanità e nella sicurezza sociale e ciò diede lo slancio a un’economia fiorente.

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Perché la disuguaglianza è un fattore allarmante?

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I Paesi che presentano una forte disuguaglianza hanno implicazioni sistemiche non solo sul ceto povero ma danneggiano il tessuto sociale nel suo complesso a livello economico, politico, sociale, sanitario, ecologico. 

Gli effetti si traducono nella realtà con abbandoni scolastici, delinquenza, malattie mentali, gravidanze adolescenziali, uso di droga, comunità disfunzionali, degrado ambientale, etc.

Quando i livelli di iniquità sono elevati è a rischio la stessa democrazia perché il potere si concentra nelle mani di pochi e mette sul mercato l’influenza politica.

Nel 2000 le parole schiette di Al Gore, ex vicepresidente degli Stati Uniti sintetizzano queste dinamiche: “La democrazia americana è stata manomessa e la manomissione consiste nel finanziamento delle campagne elettorali”.

La disuguaglianza contribuisce al degrado ecologico e mina una società perché erode il capitale sociale fondato sulle connessioni, la fiducia e le regole della comunità.  Un’azione collettiva è determinante per chiedere una legislazione ambientale.

Numerose ricerche hanno dimostrato che la disuguaglianza non fa crescere le economie più velocemente ma anzi le rallenta.

Società più eque siano esse ad basso reddito che ad alto, sono più sane e più felici.

Il mito “niente dolore, niente guadagno” della curva di Kuznets è stato confutato.

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Avanti col network!

Non perderti la prossima puntata.

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Legenda relativa ai link:

* fonte citata nel libro “Economia della Ciambella”

** approfondimento suggerito da Culturaintour

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⭕ Fare rete: l’importanza di mettersi insieme

, in

Lʼeconomia della ciambella di Kate Raworth – puntata 16, prima parte

Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo 

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5a mossa, Progettare per distribuire

Passare da “la crescita appianerà le disuguaglianze”

a distributivi per principio

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Fare rete: l’importanza di mettersi insieme

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La curva di Kuznets è stata smentita.

Ora, se vogliamo portare tutti nella zona sicura ed equa della Ciambella è necessario un nuovo approccio.
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Non aspettate che la crescita economica riduca la disuguaglianza perché non lo farà.

Invece, create un’economia basata sulla distribuzione.”

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Il nodo centrale è rimodulare la distribuzione del reddito, della ricchezza, del tempo e del potere. Indubbiamente è un obiettivo molto difficile ma emergono molte possibilità se si ragiona in termini sistemici.

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Per prima cosa Kate Raworth propone una nuova immagine che rappresenta la progettazione distributiva (vedi immagine sopra).

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Si tratta di un network diffuso i cui nodi, più grandi o più piccoli, sono interconnessi in una rete di flussi.

In natura queste strutture sono organizzate secondo frattali e riportare questo modello in un’economia può portare a una distribuzione più equa del reddito e della ricchezza.

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Cos’è un frattale?

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Il frattale è un “oggetto geometrico”** in cui un motivo identico si ripete in tutte le direzioni dando origine a strutture eccellenti per distribuire in maniera affidabile le risorse all’interno di un sistema.

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La natura è ricca di frattali: possiamo immaginare per esempio la chioma di un albero dove è facile notare come ogni singolo rametto riproduca in scala ridotta il proprio ramo e in miniatura l’albero nella sua grandezza.

I frattali, queste curiose forme geometriche, li troviamo ovunque: in un girasole, in un broccolo in un fiume e nella ramificazione del sistema respiratorio.     

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Risorse (come energia, nutrimenti, materiali e informazioni) fluiscono in questi network tenendo conto di un equilibrio tra efficienza e resilienza.

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L’efficienza viene raggiunta quando un sistema ottimizza il suo flusso di risorse per raggiungere i suoi obiettivi.

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La resilienza si basa sulla differenziazione e sull’abbondanza di connessioni nei periodi di shock o cambiamento.

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L’equilibrio è molto importante.

Un eccesso di efficienza rende un sistema vulnerabile.

Un eccesso di resilienza lo rende stagnante.

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Per comprendere i network naturali, un team di ricercatori e teorici del network – Sally Goerner, Bernard Lietaer e Robert Ulanowics – studiarono le varie strutture e i flussi di risorse presenti negli ecosistemi in natura: se vogliamo imparare dai network naturali per creare un’economia prospera, dobbiamo considerare diversità e distribuzione.

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Un  network economico diventa  iniquo e fragile se gli attori più forti riducono la pluralità e la diversità degli attori piccoli e medi. Vedi ad esempio la situazione dei colossi bancari e delle multinazionali in tutti i settori merceologici.

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Lo sviluppo economico deve focalizzarsi di più sullo sviluppo umano, comunitario e del business su piccola scala perché la vitalità a lungo termine e qualsiasi dimensione dipende da queste cose”.*

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Come possiamo distribuire il valore (materiali, energia, conoscenza e reddito) in modo molto più equo?

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Ridistribuire il reddito e la ricchezza

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Nella seconda metà del XX secolo, le politiche volte alla ridistribuzione riguardavano:

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1.Tasse progressive su reddito e trasferimento di denaro

2.Protezione del mercato del lavoro (salario minimo)

3.Servizi pubblici come sanità, istruzione, edilizia sociale.

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Politiche fortemente minate dalla corrente neoliberista.

Tuttavia all’inizio del XXI si notano politiche ridistributive: a volte sono segnali e altre volte sono interventi concreti.

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Nei paesi più ricchi molti economisti mainstream ritengono opportuno innalzare le aliquote fiscali per i redditi più alti e tassare le rendite da capitale.

A livello globale alle aziende viene chiesto di introdurre un salario massimo per i dirigenti.

Alcuni governi, come in India, offrono un accesso garantito al lavoro a che ne abbia necessità.

Tuttavia queste politiche mirano alla distribuzione del reddito e non della ricchezza che lo genera.

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Secondo l’economista e storico Gar Alperovitz  per affrontare la diseguaglianza alla radice bisogna democratizzare la proprietà della ricchezza: perché “i sistemi politico-economici sono in gran parte definiti dal modo in cui la proprietà viene detenuta e controllata.”

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Seguendo un modello sistemico integrato, nel XXI secolo emergono cinque possibilità di  trasformare le dinamiche del possesso della ricchezza riconducibili a :

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1.Possesso della terra

2.Creazione del denaro

3.Impresa

4.Tecnologia

5.Conoscenza

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L’aspetto interessante è che alcune delle possibilità dipendono da riforme statali e quindi richiedono un processo di cambiamento a lungo termine.

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Altre possono essere avviate da movimenti grass-root ** ossia movimenti dal basso e posso iniziare immediatamente.

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Modificando le dinamiche della ricchezza si contribuisce alla trasformazione da economie divisive a distributive riducendo nel processo povertà e disuguaglianza.

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La prossima volta vedremo nei dettagli le cinque aeree per trasformare le dinamiche del possesso della ricchezza.

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Legenda relativa ai link:

* fonte citata nel libro “Economia della Ciambella”

** approfondimento suggerito da Culturaintour

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⭕ Di chi è la terra? Chi crea il denaro?

, in

Lʼeconomia della ciambella di Kate Raworth – puntata 16, seconda parte

Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo 

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5a mossa, Progettare per distribuire

Passare da “la crescita appianerà le disuguaglianze”

a distributivi per principio

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Di chi è la terra? Chi crea il denaro?

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Nel XXI secolo abbiamo l’opportunità di trasformare le dinamiche del possesso della ricchezza e “di distribuire per principio”. Le aree su cui intervenire sono cinque.

In questo articolo vedremo la terra e il denaro.

Queste innovazioni contribuiranno a cambiare le economie da divisive a distributive e come effetto ridurranno povertà e disuguaglianze.

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1..Di chi è la terra?

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Nel corso della storia dell’uomo, la proprietà è stata gestita nei modi più disparati e con le logiche più svariate. A partire dalla strategia di Enrico VIII nel XVI secolo di sopprimere i monasteri inglesi e svenderne le terre per arrivare alla visione di Henry George che ispirò la corrente economica nota come georgismo **, secondo la quale ognuno ha il diritto di appropriarsi di ciò che realizza con il proprio lavoro mentre tutto ciò che si trova in natura, principalmente la terra, appartiene all’intera umanità e proponeva un’imposta sul valore fondiario.

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Via via così nel corso dei secoli per arrivare ad Adam Smith che celebrava la capacità del mercato di auto-organizzarsi e promuoveva il passaggio della terra a proprietà privata. Garrett Hardin, dal canto suo, riteneva che gli individui utilizzano un bene comune per interessi propri e i diritti di proprietà non sono chiari introducendo nel 1968 il concetto di “Tragedia dei beni comuni* **

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Elionor Ostrom, Nobel nel 2009**, contestò la tesi di Hardin con una serie di studi in merito all’auto-organizzazione dei beni comuni.** Ostrom e il suo team di ricercatori analizzarono l’uso condiviso delle risorse in varie comunità nel mondo e dall’indagine emerse che molte di queste comunità gestivano le loro terre e le risorse comuni meglio dei mercati e dei sistemi statali.*

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L’esperta ritiene che non esiste una panacea – ossia un rimedio universale che cura tutte le problematiche – per gestire bene la terra e le sue risorse: né il mercato, né i beni comuni, né lo Stato.

La pianificazione territoriale distributiva deve adeguarsi alle persone e ai luoghi e meglio potrebbe funzionare se riuscisse a combinare mercato, beni comuni e Stato per soddisfare i bisogni delle persone.*

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2. Chi crea il nostro denaro?

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Perché i sistemi commerciali complessi possano funzionare è necessario qualche forma di denaro. Il valore del denaro non è una realtà materiale ma un concetto mentale.

Come siamo siamo arrivati a usare comunemente questo strumento?**

Il motivo è la fiducia. Il denaro è un sistema di mutua fiducia, di relazione sociale riconosciuto a livello collettivo.

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Il denaro che conosciamo, qualunque sia la sua valuta (dollari , euro o yen) ha una sola identità mentre invece esistono molte altre forme possibili e in base a come viene creato e al ruolo che gli viene assegnato, determina forti conseguenze sulla sua distribuzione.

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Tuttavia il progetto del denaro – come viene creato, quale significato gli viene dato e come viene usato – ha pesanti implicazioni sulla sua stessa distribuzione.

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La creazione di denaro che conosciamo noi è da attribuirsi alle banche commerciali che offrono prestiti o linee di credito che vengono per lo più utilizzati per investimenti: per esempio acquisto di beni quali case, terreni e prodotti di tipo finanziario come titoli o azioni.

Questo modello di investimenti non genera una nuova ricchezza da cui trarre una fonte di reddito ma punta su una rendita derivante dall’aumento di valore del bene stesso.*

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Solo una bassa quota di prestiti è collocata per lo sviluppo delle imprese produttive di piccole dimensioni.

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L’attuale macroeconomia ignora i ruoli che la rendita, il debito e il settore finanziario giocano nel plasmare la nostra economia.*

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Occorre dunque riprogettare il ruolo del denaro che deve coinvolgere lo Stato, i beni comuni e il mercato e trasformare questa sorta di “monocultura monetaria” in un ecosistema finanziario.

Contando sull’esperienza storica della Grande Depressione degli anni Trenta e del  crollo finanziario del 2008, le banche centrali dovrebbero riprendersi il potere di creare denaro e trasferirlo alle banche commerciali dietro garanzia di riserve pari al 100% dei prestiti che concedono. Questa procedura preverrebbe il nascere di bolle finanziarie che arrecano enormi danni sociali ed economici.

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Le banche statali inoltre potrebbero concedere prestiti a tassi di interesse agevolati per famiglie svantaggiate e promuovere progetti di infrastrutture verdi e sociali come sistemi per l’energia rinnovabile comunitari e accelerare la trasformazione tanto necessaria.

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Cosa possono fare i beni comuni per sviluppare il nostro ecosistema finanziario?

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Nel mondo esistono già valute complementari alla moneta nazionale ufficiale. In un’ottica di resilienza si possono trovare nuovi modi di creare denaro: una nuova moneta serve a dare una spinta all’economia locale, rafforzare il tessuto sociale, generare equità nella comunità e pagare lavori che non verrebbero retribuiti.

Una propria moneta locale, già sperimentata da anni in alcuni luoghi nel mondo, consiste nel creare un network composto dai commercianti all’interno di una comunità: ognuno di loro si impegna a comprare e vendere beni e servizi nel circuito nel network.

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Un’altra forma di moneta è “il tempo”: è su questo principio che nascono le Banche del tempo in cui ci si scambiano competenze, saperi e attività usando come misura di valore il proprio tempo.

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Le banche del tempo possono avere numerose finalità. In una ricca città svizzera è sta creata una banca del tempo in cui i cittadini over60 che vi partecipano accumulano crediti di tempo di cura aiutando i residenti anziani a svolgere piccole mansioni come fare la spesa cucinare e facendo loro compagnia. Tutto questo tempo dedicato agli altri costituisce una sorta di “pensione sotto forma di  tempo” di cui si potrà usufruire per le proprie future necessità.

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Rimane il dubbio che simili soluzioni  sviliscano l’istinto umano a prendersi cura degli altri senza condizioni perché, anche se in modo intrinseco, si basano su una ricompensa anche se non è il denaro vero e proprio.

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Con la tecnologia inoltre stanno emergendo nuove monete complementari – le criptovalute ** , Con  l’invenzione di blockchain (catena a blocchi), una piattaforma digitale decentralizzata peer-to-peer che consente di tenere traccia di tutte le forme di valori che vengono scambiate tra le persone nel network. 

Una moneta che usa la tecnologia di blockchain è Ethereum** che ha attivato micro-reti per lo scambio al suo interno, di energia rinnovabile.

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Questi sono solo esempi di riprogettazione della moneta che riguardano il mercato, beni comuni e lo Stato. È un invito a riconoscere il fatto che il modo in cui il denaro viene progettato – la sua creazione, il suo ruolo ha conseguenze sulla sua distribuzione. Occorre dunque mettere al centro di un nuovo ecosistema finanziario, il potenziale della progettazione distributiva.

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Seguici per scoprire le altre tre aree coinvolte nella progettazione distributiva.

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Legenda relativa ai link:

* fonte citata nel libro “Economia della Ciambella”

** approfondimento suggerito da Culturaintour

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⭕ Di chi è il tuo lavoro? I robot? E le idee?

, in

Lʼeconomia della ciambella di Kate Raworth – puntata 16, terza parte

Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo 

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5a mossa, Progettare per distribuire

Passare da “la crescita appianerà le disuguaglianze”

a distributivi per principio

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Di chi è il tuo lavoro? I robot? E le idee?

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Nel XXI secolo abbiamo l’opportunità di trasformare le dinamiche del possesso della ricchezza e “di distribuire per principio”. Le aree su cui intervenire sono cinque.

Abbiamo già visto la terra e il denaro qui.

In questo articolo conosceremo l’impresa, la tecnologia e la conoscenza.

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Queste innovazioni contribuiranno a cambiare le economie da divisive a distributive e come effetto ridurranno povertà e disuguaglianze.

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3. Di chi è il tuo lavoro?

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Negli ultimi trent’anni, stiamo assistendo nei paesi ad alto reddito, a una stagnazione dei salari che sono, per lo più, rimasti fermi o addirittura calati nonostante le economie siano cresciute.

Gli stipendi dei dirigenti sono aumentati.

In Gran Bretagna per esempio dal 1980 il Pil è cresciuto velocemente ma non sono andati di pari passo i salari.*

Discorso analogo per gli Stati Uniti: agli anni che vanno dal 2002 al 2012 è stato addirittura attribuito il nome di “Decade of flat wages* , il decennio perduto dei salari.

La questione della stagnazione dei salari riguarda anche la Germania: negli anni in cui si è registrata una crescita dell’economia quasi record, i salari sono rimasti fermi.*

La disparità nasce da una questione di progettazione.

Chi raccoglie il valore generato dai lavoratori?

All’epoca i padri fondatori dell’economia avevano ben chiaro che si presentavano tre gruppi:

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.Lavoratori

.Proprietari terrieri

.Capitalisti

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Nel pieno della Rivoluzione industriale le imprese cedevano le azioni a ricchi investitori e una gran massa di lavoratori si offriva per dare la propria manodopera. Si andavano così delineano le classi sociali che detenevano un potere ben diverso tra loro.

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Mentre andava in auge la supremazia degli azionisti verso cui le aziende avevano l’obbligo primario di massimizzare il ritorno economico attraverso di dividendi** , i lavoratori venivano considerati come un fattore esterno all’impresa e visti come un costo da minimizzare.

La crescita del capitalismo azionario ha rafforzato questa cultura e ha dominato il XIX e XX secolo.

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Esiste un modello di impresa alternativo da applicare nel XXI secolo?

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L’analista Marjorie Kelly ha dedicato la sua carriera per studiare il reticolo di legami fra schemi proprietari, produzione e distribuzione della ricchezza.

L’attuale potere economico e la ricchezza sono in capo ad una minoranza e occorre ricercare – secondo il pensiero di Marjorie Kelly – una trasformazione: una proprietà privata che permetta una distribuzione.

Finché le imprese saranno create per concentrarsi esclusivamente sulla massimizzazione del reddito finanziario per pochi, la nostra economia sarà bloccata in una crescita senza fine e in un aumento delle disuguaglianze. *

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La proposta di Marjorie Kelly è una progettazione d’impresa chiamata generativa e si basa su due principi:

l’appartenenza radicata e la finanza azionaria.

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Immaginate che i lavoratori, invece di essere una  “componente esterna” siano i proprietari dell’azienda.

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Immaginate che queste imprese invece di emettere azioni per gli investitori esterni, emettano bond promettendo un ritorno prestabilito e adeguato.

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Questo tipo di imprese, di proprietà dei lavoratori, e le cooperative esistono. Il movimento delle cooperative nacque in Inghilterra a metà del XIX secolo.

L’aspetto i interessante è che ci sono altre forme di pianificazione del business che si stanno aggiungendo a questo modello, ormai consolidato: di simili imprese occorre creare un ecosistema. 

Imprenditori e avvocati innovativi e lungimiranti stanno riscrivendo gli attivi costitutivi e gli statuti delle società e questo vuol dire che si delineano obiettivi, strutture e diritti e doveri.

Riprogettare questi elementi significa riprogettare il dna del business e passare da un potere economico in mano a pochi a molti.

Questo nuovo network di imprese innovative sta operando affianco alle imprese tradizionali.

È vero, le aziende mainstream guidate dalla supremazia degli azionisti continuano a dominare e “ fondamentalmente dovremo cambiare il sistema che sta al cuore delle principali società – ammette Marjorie Kelly – ma bisogna partire da quello che è fattibile, che ravviva e che punta a vittorie più grandi in futuro”.

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4. Di chi saranno i robot?

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La rivoluzione digitale ha e avrà sempre più un impatto significativo in tema di lavoro, salari e ricchezza.

Finora ha  generato due tendenze opposte: da un lato ha permesso lo sviluppo di intense collaborazioni grazie ai network a costi praticamente nulli. Pensiamo alla crescita dinamica dei beni comuni gestiti collettivamente. Chiunque abbia una connessione internet può informare, imparare e intrattenere a livello globale. Chiunque può accedere al circuito della moneta blockchain, acquistare o vendere energia rinnovabile.

Tali tecnologie sono l’essenza della progettazione distributiva: ognuno può diventare prosumer (prosumer è composto dalla parola producer e consumer) ed essere utente nell’economia peer-to-peer.

È anche vero che si sta verificando una dinamica del tipo “il vincitore prende tutto”: il web anziché essere un mezzo per promuovere e sviluppare una varietà di imprese e provider di informazioni, si  è trasformato in monopoli digitali detenuti da colossi come Google, YouTube Apple, Facebook, Amazon, etc.

Di fatto stanno gestendo i beni comuni sociali globali per un esclusivo interesse commerciale e attraverso brevetti stanno cercando di tutelare i propri privilegi.*

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L’altra tendenza è di sostituire le persone stesse con robot in grado di imitare gli essere umani con prestazioni migliori. Sono a rischio milioni di posti di lavoro e a livello globale.

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Nel 2016 la Foxconn, leader mondiale cinese della produzione elettronica ha rimpiazzato 60mila lavoratori con robot in una sola fabbrica e prevede di arrivare a un milione di macchine.*

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Quali politiche può applicare una progettazione distributiva per attenuare questa tendenza?

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Una soluzione è quella di tassare le aziende per l’uso dei robot.

L’utilizzo dei robot rappresenta una duplice perdita anche per lo Stato: non essendoci lavoratori si erodono le tasse sui salari e in più gli investimenti in macchine sono spese deducibili dalle tasse.

Ecco perché bisogna investire molto di più nella formazione professionale delle persone e sviluppare competenze e abilità non proprie dei robot: creatività, empatia, contatto umano, pensiero laterale. Caratteristiche che sono essenziali in molti impieghi come insegnanti della scuola primaria, diretti artistici, psicoterapeuti e tutti i lavori in ambito. artistico e sociale.

Da mettere in evidenza che molti lavoratori non avranno un salario sufficiente per vivere da qui la necessità di prevedere un reddito minimo per tutti.

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Un’altra soluzione è il modello proposto da Mariana Mazzucato.

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È lo Stato, nelle economie più avanzate, a farsi carico del rischio d’investimento iniziale all’origine delle nuove tecnologie. È lo Stato, attraverso fondi decentralizzati, a finanziare ampiamente lo sviluppo di nuovi prodotti fino alla commercializzazione. E ancora: è lo Stato il creatore di tecnologie rivoluzionarie come quelle che rendono l’iPhone così ‘smart’: internet, touch screen e gps. Ed è lo Stato a giocare il ruolo più importante nel finanziare la rivoluzione verde delle energie alternative.

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Ma se lo Stato è il maggior innovatore, perché allora tutti i profitti provenienti da un rischio collettivo finiscono ai privati?*

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Lo Stato dovrebbe partecipare alla proprietà della tecnologia robotica con diritti sui brevetti in comproprietà pubblico-privato assegnando alle banche statali quote significative dei settori che usano tecnologie robotiche basate sulle ricerche finanziate dallo Stato.

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Con il massiccio e rapido ingresso dei robot, sono necessarie proposte innovative per dare equilibrio allo sconvolgimento del lavoro e quindi dei redditi: la ricchezza generata dalla produttività dai robot deve essere ampiamente distribuita.

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5. Di chi sono le idee?

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“Abbiamo fra noi uomini di grande ingegno, atti ad inventare e scoprire dispositivi ingegnosi: ed è in vista della grandezza e della virtù della nostra città che cercheremo di far arrivare qui sempre più uomini di tale specie ogni giorno.”

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Era marzo 1474, nella Repubblica di Venezia, venne promulgato lo Statuto dei brevetti accompagnato dalle parole che hai appena letto.

La storia dei brevetti inizia così e ne costituisce un primato a livello di legislazione mondiale.

Venezia infatti voleva premiare I famosi soffiatori di vetro con brevetti decennali con cui proteggere le loro creazioni dalle imitazioni.

Con il tempo però gli artigiani emigrarono portando e diffondendo il loro sapere in tutta Europa e in tutti i settori industriali.

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In una prima fase i regimi di proprietà intellettuale – brevetti, copyright e marchi registrati – diedero impulso alla Rivoluzione industriale. Con il tempo però il bene comune della conoscenza tendeva ad  essere monopolizzato e oggi sta mettendo in evidenza un aspetto controproducente: l’abuso delle leggi a tutela della proprietà proprietà intellettuale sta soffocando l’impulso all’innovazione. Innovazione che invece si voleva promuovere.

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In realtà i brevetti sono a vantaggio delle grandi aziende più che all’avanzamento scientifico e dei piccoli innovatori.

La teoria economica mainstream afferma che è necessaria la protezione della proprietà intellettuale per difendersi dalla concorrenza e per poter recuperare i costi della ricerca per prodotti innovativi lanciati sul mercato.

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Ma non tutti la pensano così.

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Molti decenni fa è nato un movimento per l’open source** utilizzando un software gratuito – FOSS (Free and Open Source Software) e un hardware gratuito conosciuto come FOSH (Free Open Source Hardware).

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Questa nuova cultura fondata sulla condivisione della conoscenza ha dato un forte impulso a beneficio dello sviluppo di internet: open source permette a programmatori distanti di coordinarsi e lavorare allo stesso progetto. Wikipedia è un esempio.  

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I paesi in via di sviluppo possono, attraverso l’utilizzo del FOSS, acquisire conoscenze tecnologiche e può essere favorito lo sviluppo di comunità locali di persone in grado di installarlo, utilizzarlo e magari migliorarlo.

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Le piccole e medie imprese anche con scarse risorse finanziarie possono realizzare FOSS e proporli sul mercato globale.

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Ma la progettazione open source ha enormi potenzialità a vantaggio delle comunità e delle istituzioni statali che avrebbero un ingente taglio dei costi.

Il consolidamento di una realtà collaborativa che sviluppi i beni comuni ha bisogno del sostegno delle politiche statali così come è stato per lo sviluppo del capitalismo.

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Come si può concretizzare il potenziale dei beni comuni?

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Ecco i 5 fondamentali:

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1. investire nell’ingegnosità umana (imprenditoria sociale, problem solving, collaborazione nelle scuole e nelle università) con la finalità che i giovani riescano a creare network open source mai avuti prima;

2. la ricerca finanziata con fondi pubblici diventi conoscenza pubblica escludendo la possibilità di bloccarla con brevetti, copyright;

3. monitorare le aziende perché non ci siano brevetti falsi o copyright che violino i beni comuni della conoscenza;

4. finanziare con fondi pubblici spazi e strumenti dove gli innovatori “comunitari” possano sperimentare la produzione di hardware open source;

5. promuovere la diffusione di organizzazioni civiche – da società cooperative a Comitati di studenti – affinché si realizzino una pluralità di  “nodi” che diano vita a network peer-to-peer.

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Diventare globali

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Il mondo nel suo complesso mantiene un alto livello di disuguaglianza all’interno di ciascuna nazione così come tra nazioni. Questo spinge l’umanità fuori dallo spazio equo e sicuro della Ciambella.

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Nel XXI è necessario considerarci parte di una comunità globale e far emergere la potenzialità della progettazione distributiva.

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La migrazione è uno dei sistemi più efficaci per ridurre la disuguaglianza globale: i trasferimenti di denaro inviati alle famiglie a casa da parte dei lavoratori partiti in cerca di fortuna in paesi stranieri rappresenta una fonte vitale per le economie delle comunità d’origine.

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Tuttavia bisogna ricordare che esiste un’organizzazione per la redistribuzione finanziaria. È l’ODA – Overseas Development Assistant, promossa dall’OCSE e nata nel 1970. L’impegno dei paesi più ricchi era quello di dare un aiuto finanziario, a lungo termine, ai paesi poveri a sostegno del loro sviluppo economico, sociale e politico.

Al 2013 le aspettative sono state disattese e i fondi arrivati risultavano la metà di quelli previsti.

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Lo scarso apporto di risorse è spesso giustificato dai paesi ad alto reddito sostenendo che gli aiuti venivano mal spesi o oggetto di abuso da parte governi corrotti.

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Una soluzione, dunque, potrebbe essere quella di destinare una parte dei fondi direttamente alle persone che vivono in povertà cosi che possa fungere da reddito minimo. Secondo alcuni studi sui piani di trasferimento, specie in Kenya,  emerge che le persone che possono contare su una base di sicurezza economica per i momenti di difficoltà tendono a lavorare più sodo e a cogliere più opportunità.

Va detto che questi introiti che giungono dall’esterno devono essere necessariamente complementari alle politiche statali e ai beni comuni e non devono sostituirsi ad essi.

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L’obiettivo più efficace è arrivare ad una tassa globale sulla ricchezza personale estrema: ci sono più di 2000 miliardari sparsi nel mondo. Una tassa annuale sulla ricchezza pari a solo l’1,5% del loro patrimonio porterebbe a un ammontare di  74 miliardi di aiuti. 

Per non parlare di una tassazione a carico delle industrie dannose, una carbon tax globale a tutta la produzione del petrolio, carbone e gas, una tassa globale sulle transazioni finanziarie per frenare il commercio speculativo.

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Certo queste soluzioni possono sembrare utopistiche ma lo erano anche l’abolizione della schiavitù, il diritto di voto alle donne, riconoscimento di diritti civili agli omosessuali.

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La regola per il XXI secolo è dunque l’accesso universale ai mercati, ai servizi pubblici, ai beni comuni globali. 

Il potenziale di un network della conoscenza è incredibile.

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Per fare un esempio, si può ricordare la sorprendente e commovente storia di Wiliam Kamkwamba,** un ragazzo malawiano che abbandonò la scuola nel 2001 a 14 anni perché la famiglia era indigente.

Lui continuò a studiare in biblioteca e dopo aver letto un libro sull’energia riuscì a costruire per la sua famiglia una pala eolica utilizzando materiali recuperati in discarica. Presto nel suo villaggio si conobbe l’invenzione e la gente andava da lui per ricaricare i cellulari.

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L’ingegnosità di William è a lieto fine perché dopo questo evento arrivarono i giornalisti e la notorietà gli ha permesso di ricevere finanziamenti: si è laureato negli Stati Uniti e oggi è un inventore pluripremiato.

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Wiliam ha creato una piattaforma digitale per innovatori in Malawi.

Il network consentirà di risolvere molti problemi in Africa.

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E torniamo al motto di Arnold Schwarzenegger “niente dolore, niente guadagno” e alla curva di Kuznets: le economie eque non emergono dalla povertà dopo un processo di sofferenza sociale ed economica.

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La progettazione distributiva porta a un cambiamento radicale nella mente degli economisti che devono focalizzarsi non solo sulla redistribuzione del reddito ma della ricchezza costituita da: potere di controllare terreni, creare denaro, imprese, tecnologie e conoscenza.

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C’è un’altra progettazione da mettere in atto oltre quella distributiva: la progettazione rigenerativa e la vedremo con la prossima puntata.

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Legenda relativa ai link:

* fonte citata nel libro “Economia della Ciambella”

** approfondimento suggerito da Culturaintour

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