⭕ Pil, nato per crescere

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L’economia della ciambella di Kate Raworth – puntata 7

Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo

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1a mossa, Cambiare obiettivo

Passare dal Pil

alla Ciambella in equilibrio

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Pil, nato per crescere

Sul finire del 1929 gli Stati Uniti subirono il crollo della borsa, il cosiddetto “Crollo di Wall Street” e si innescarono una serie di effetti domino portando l’economia americana al collasso: fallimento di banche, chiusura di fabbriche, disoccupazione, caduta verticale di consumi, riduzione di salari, risparmiatori che ritirarono i propri depositi.

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Gli effetti non tardarono e nel disastro cadde l’intera economia mondiale.

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La crisi durò un decennio. La ripresa iniziò nel 1933 con Franklin D. Roosevelt . Il neo eletto presidente adottò un piano di riforme economiche e sociali fra il 1933 e il 1937, detto New Deal. 

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Roosevelt ebbe bisogno di un’unità di misura per monitorare l’andamento dell’economia. Questo compito fu affidato all’economista Simon Kuznets (premio Nobel per l’economia nel 1971) che elaborò il Gross Domestic Product (GDP) in italiano Prodotto Interno Lordo (Pil).

Questa unità di misura consentì al Presidente degli Stati Uniti di controllare l’efficacia del suo programma New Deal: più la linea del Pil volgeva verso l’alto più l’economia stava crescendo.

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Gli Stati Uniti così si risollevarono dalla crisi e presto ci si dimenticò che Kuznets, il padre ideatore del Pil, sin dall’inizio (1937)  volle precisare che il suo indicatore comprendeva solo il valore dei beni e servizi prodotti ma non rifletteva il modo in cui il reddito e il consumo fossero realmente distribuiti e quindi non teneva conto dell’effettivo benessere della società.

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Tuttavia il paradigma della crescita si consolidò fortemente.

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Negli anni Cinquanta l’ascesa economica dell’Unione Sovietica diventò ragione di competizione per gli Stati Uniti che puntarono in modo ancora più determinato a dare impulso all’economia.

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Questo modello venne visto come una panacea capace di risolvere problemi sociali, economici e politici.

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L’idea dell’aumento costante del Pil si sovrappose con l’idea di progresso poiché evocava l’immagine dimovimento che va avanti” o “verso l’alto” modellando il modo di pensare e di parlare.* **

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Negli anni Sessanta Kuznets divenne uno dei critici più accaniti verso la popolarità del Pil evidenziando che il benessere di una nazione difficilmente può essere dedotto dalla misura del reddito nazionale.

Arriviamo agli inizi anni Settanta quando Donella Meadows, una scienziata dei sistemi, non si stancò di mettere in allerta il mondo del pericolo di considerare la crescita economica come illimitata.

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Donella Meadows, una delle principali autrici del rapporto “I limiti della crescita” pubblicato nel 1972 e commissionato dal Club di Roma, fu decisamente chiara a marzo 1999* nel corso di una conferenza quando affermò che “ gli obiettivi devono avere a che fare con la vera realizzazione umana, non solo con l’ottenere di più “.

E poi farsi sempre le domande:  

Crescita di cosa? Crescita perché? Crescita per chi? Quanto tempo può durare? “

Le riflessioni di Donella Meadows possono sembrare di parte ma suona davvero ironico il fatto che lo stesso creatore del Pil, Simon Kuznets, scrisse negli anni Sessanta nel il suo libro “How to judge Quality”: bisogna tenere in mente la distinzione tra quantità e qualità della crescita, tra costi e benefici, tra il breve e il lungo termine. Gli obiettivi dovrebbero essere espliciti: obiettivi di maggiore crescita dovrebbero precisare maggiore crescita di cosa e per cosa.

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Senza ulteriori indugi, è giunto il momento di sfrattare il cuculo dal nido.

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Bisogna concentrarsi su obiettivi che assicurino dignità e opportunità entro i limiti consentiti dal pianeta in modo da  vivere nello spazio sicuro ed equo per l’umanità.

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disegno cuculo #irenerenon

credits: @ireneagh

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⭕ Lʼelemento principale: la Terra

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Lʼeconomia della ciambella di Kate Raworth – puntata 10, seconda parte
Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo

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2a mossa, Vedere l’immagine complessiva
Passare dal Mercato autosufficiente
all’Economia integrata

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L’elemento principale: la Terra

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Il diagramma “Economia Integrata” di Kate Raworth considera come elemento principale la Terra.

L’economia si serve del pianeta e deve quindi, necessariamente, tenere conto dei suoi ecosistemi.

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Il diagramma dell’Economia della Ciambella dà una visione complessiva in quanto rappresenta:

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la Terra con mondo vivente, risorse ed energia del sole;
la Società umana con la sua economia costituita da famiglie, Stato, beni comuni e mercato;
l’Economia e la circolazione dei flussi finanziari.

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Vediamoli ora nel dettaglio:

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T E R R A

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La Natura ci dà la vita quindi è necessario rispettarne i suoi confini planetari.

In prima battuta l’economia per la sua produzione si serve del pianeta come fonte da cui attinge ogni forma di risorsa: energia, acqua, materie prime, patrimonio vegetale e animale.

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Il flusso di materie è rappresentato nel diagramma con la freccia nera (vedi immagine sopra).

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In un secondo tempo, dopo la produzione e il consumo, la Terra è usata dall’economia come pozzo per accogliere gli scarti (ogni sorta di rifiuto e inquinamento).

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La direzione del flusso di rifiuti è rappresentato dalla freccia arancione del diagramma.

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Il processo naturale della Terra, al contrario dell’economia, è un sistema chiuso e circolare basato su un perfetto equilibrio: qualsiasi elemento vivente o non vivente rimane al suo interno senza generare rifiuti.
Solo l’energia del sole fluisce : arriva e se ne va.

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La prima cosa da fare è quindi definire l’economia come un sottosistema aperto del sistema chiuso-Terra.

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Un altro elemento da tenere presente per le teorie economiche del nostro tempo non è più il denaro ma l’energia.
La maggior parte dell’energia che fa funzionare l’economia globale è quella che arriva dal Sole: consente di far crescere le colture, le foreste e il bestiame.

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L’altro tipo di energia utilizzata per l’economia è principalmente quella che deriva dai combustili fossili (carbone, petrolio, gas).
Qui arriviamo al punto critico che ha dato origine ai cambiamenti climatici.

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Nell’era dell’Olocene durata circa 12000 anni, l’energia del Sole entrava nell’atmosfera terreste e successivamente il calore veniva disperso nello spazio. Questo perfetto equilibrio ha consentito di avere nel periodo olocenico temperature gradevoli e stabili.

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Con la rivoluzione industriale, circa 200 anni fa e soprattuto con e dopo il boom economico degli anni Cinquanta, il delicato equilibrio naturale è stato progressivamente compromesso a causa dell’utilizzo massiccio dei combustili fossili.

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La combustione di petrolio, gas e carbone infatti genera il rilascio in atmosfera di enormi quantità di anidride carbonica e altri gas a ritmi che non hanno precedenti nella storia umana. Questo processo iniziato molti decenni fa in un crescendo esponenziale e irreversibile sta provocando il famigerato effetto serra che a sua volta determina il surriscaldamento globale.

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Va precisato che esiste un effetto serra naturale con vede la presenza di gas in atmosfera che permettono alla Terra di mantenere una temperatura media di +15° che favorisce la vita sul pianeta.

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In assenza di un effetto serra naturale la temperatura media sarebbe di -18°

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Diverso è l’incessante effetto serra innescato dall’attività umana che provoca il riscaldamento globale compromettendo gli ecosistemi e la biosfera.

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Le conseguenze dei cambiamenti climatici si manifestano attraverso fenomeni meteo estremi come uragani, tempeste e inondazioni, scioglimento dei ghiacci polari, desertificazione e incessante perdita della biodiversità.

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Ecco perché gli scienziati ci dicono che abbiamo alle spalle l’era dell’Olocene e siamo nell’era dell’Antropocene.

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Le attività dell’uomo stanno causando dei cambiamenti profondi al sistema Terra, superiori alle forze di origine astronomica, geofisica e interna allo stesso sistema.

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Finisce qui la seconda parte.
Nella terza ed ultima parte conosceremo nel dettaglio la Società e l’Economia secondo la visione di Kate Raworth.

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⭕ Società e economia

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Lʼeconomia della ciambella di Kate Raworth – puntata 10, terza parte
Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo

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2a mossa, Vedere l’immagine complessiva
Passare dal Mercato autosufficiente
all’Economia integrata

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Società e economia

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Il diagramma dell’Economia della Ciambella comprende:

la Terra con mondo vivente, risorse ed energia del sole;
la Società umana con la sua economia costituita da famiglie, Stato, beni comuni e mercato;
l’Economia e la circolazione dei flussi finanziari.

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Dopo aver visto la T E R R A la volta scorsa, passiamo a vedere nel dettaglio:

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S O C I E T À

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Una comunità sana è caratterizzata dalla sua capacità di creare al suo interno reti di relazioni e fiducia.

Questi elementi in una collettività danno come risultato la coesione sociale, la cooperazione, la partecipazione.

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Il Prof. Robert Putnam, politologo statunitense, con i suoi studi ha dimostrato che le relazioni fra istituzioni pubbliche, fiducia delle comunità locali e attivismo sociale si trasformano in qualità, sostenibilità e legittimazione delle politiche che si riflettono in numerosi ambiti: economia, sanità, sociale, cultura, educazione, ambiente.

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Questo patrimonio di risorse e di benefici viene definito da Putnam, capitale sociale*.

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Lo storico Howard Zinn analizzò numerosi fenomeni sociali e dichiarò che “cambiamenti significativi si verificano quando i movimenti sociali raggiungono un punto critico di potere in grado di spostare i politici cauti* oltre la loro tendenza a mantenere le cose come sono – o quando questi movimenti, con l’azione diretta, aggirano il sistema politico e determinano il cambiamento agendo direttamente sugli ostacoli da cambiare”.

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Questo avvenne per esempio quando il movimento contro la schiavitù tra gli anni 1850 e 1860 spinse il presidente A. Lincoln verso la proclamazione di emancipazione e quando il crescente movimento operaio degli anni Trenta indusse il presidente Franklin D.Roosevelt a varare le riforme del New Deal: salario minimo, Previdenza sociale, alloggi sovvenzionati.

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E C O N O M I A

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Secondo il diagramma di Kate Raworth, all’interno della società vi è incorporata l’economia ove le persone producono, distribuiscono e consumano beni e servizi che soddisfano bisogni e desideri umani.

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Le componenti dell’economia sono:

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le famiglie che forniscono beni e servizi essenziali per i propri componenti;
il mercato che produce beni privati per coloro che vogliono acquistarli;
i beni comuni che producono beni collettivi per la comunità;
lo Stato che produce beni e servizi pubblici per tutta la popolazione.

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Con il diagramma di Economia Integrata si evince che alle persone vengono riconosciute più identità sociali ed economiche e non sono solo lavoratori o consumatori o possessori di capitali come invece fa il diagramma di Samuelson.

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Le famiglie

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Il lavoro domestico, fatto di cura e di assistenza per tutto il nucleo familiare in forma gratuita svolto soprattutto dalle donne, deve essere rivalutato.

Il lavoro domestico costituisce “l’economia fondamentale” di una società avendo il ruolo primario per il raggiungimento del benessere umano: la produttività dell’economia retribuita dipende direttamente da esso.

Per fare un esempio concreto tutti i servizi (asili nido, assistenza alla comunità, centri per la gioventù, etc) che il settore pubblico non può soddisfare per mancanza di fondi vengono addossati ai nuclei familiari che se ne fanno carico con le proprie risorse.

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Occorre quindi definire il lavoro domestico come economia fondamentale con un ruolo centrale e ridistribuito perché ancora oggi svolto essenzialmente dalle donne che sono penalizzate in termini di opportunità di lavoro, reddito, posizione sociale.

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Il mercato

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Il mercato ha un enorme potere. Ecco perché occorre passare da un mercato libero a un mercato integrato ossia una regolamentazione pubblica che integra il mercato in un diverso insieme di regole politiche, legali e culturali, cambiando chi si prende i rischi e i costi e chi raccoglie i frutti del cambiamento.

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I beni comuni

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I beni comuni hanno un enorme potenziale creativo. I beni comuni possono essere beni naturali o sociali o culturali o digitali: sono risorse condivisibili gestite e utilizzate dalla comunità in modo autonomo pressoché senza l’intervento dello Stato o del mercato.
È fruitore del valore generato direttamente chi ha contribuito a creare il bene comune (un esempio nel mondo digitale può essere Wikipedia).

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Lo Stato

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Milton Friedman, padre del pensiero neoliberista, riteneva che il ruolo economico dello Stato dovesse limitarsi all’applicazione delle leggi, a garantire la sicurezza della nazione e della proprietà privata. Questi infatti erano i prerequisiti necessari al funzionamento dei mercati.
Di parere contrario era lo stesso Paul Samuelson che attribuiva allo Stato un ruolo fondamentale e creativo nella vita economica.
A oggi nel mondo economico le posizioni di Friedman hanno la meglio.

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L’Economia integrata vede lo Stato con un ruolo attivo e quale connettore tra famiglie, beni comuni, mercato.

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Lo Stato ha la funzione di:

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1.fornire tutti i beni pubblici (scuole, ospedali, strade. etc);
2.sostenere le famiglie con politiche sociali quando queste svolgono un compito di cura per i bambini/istruzione o assistenza agli anziani;
3.favorire il dinamismo e lo spirito collaborativo dei beni comuni ;

4.partner economico che sostiene e agevola il potenziale del mercato che è finalizzato al bene comune.

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La finanza

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Oggi la finanza non è di supporto all’economia ma la domina.

In alcuni casi determina persino l’instabilità del mercato.

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È ora di riprogettare una finanza in modo che sia al servizio dell’economia e della società.
Le aziende inoltre hanno bisogno di una visione più ampia nel XXI secolo rispetto a quella di Friedman che si è dimostrata fallimentare.

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Occorre che le imprese siano incubatrici di creatività e con uno scopo più stimolante rispetto alla semplice massimizzazione del profitto.

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La teoria economica classica elaborata nel XIX secolo da David Ricardo non è più praticabile viste le dinamiche derivanti dalla globalizzazione.
Il commercio è divenuto un’arma a doppio taglio che rende vulnerabili i mercati.

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I governi devono cooperare se vogliono che i flussi transfrontalieri diano benefici a tutti.
Il commercio quindi deve essere equo.

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Come denunciato dal movimento Occupy Wall Street, nato nel 2011 gli abusi di potere del capitalismo finanziario, provocano una grave iniquità economica e sociale che è andata accentuandosi negli anni.

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Infatti la concentrazione di ricchezza e di reddito in mano a pochi miliardari si trasforma inevitabilmente in potere capace di agire sul funzionamento dell’economia e della politica.

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Nel XXI secolo è di vitale importanza ridistribuire la ricchezza e il reddito per contrastare il potere delle élite e rafforzare quello dei cittadini.

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Condividi questo articolo e continua a seguirci perché tutti questi aspetti sono ripresi nei prossimi articoli a partire dall’Homo economicus.

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Legenda relativa ai link:

* fonte citata nel libro “Economia della Ciambella”

** approfondimento suggerito da Culturaintour

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⭕ Un uomo da dimenticare

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Lʼeconomia della ciambella di Kate Raworth – puntata 11
Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo

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3a mossa, Coltivare la natura umana
Passare dall’Uomo economico razionale
a Esseri umani sociali adattabili

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Un uomo da dimenticare

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Nell’immagine puoi vedere come Kate Raworth ha raffigurato l’homo economicus.

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Una delle storie più pericolose dell’economia del XX secolo è la rappresentazione dell’umanità come uomo economico razionale.

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Facciamo un salto indietro nel tempo per capire a quando risale la nascita di questa rappresentazione.

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Dobbiamo fare riferimento ad Adam Smith, il fondatore dell’economia politica liberale, con le sue pubblicazioni: nel 1759 The Theory of Moral Sentiments (Teoria dei sentimenti umani) e nel 1766 The Wealth of Nations (La ricchezza delle nazioni).

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Adam Smith pensava che l’uomo avesse una sua natura egoistica ma allo stesso tempo dotato di principi che lo fanno interessare alla sorte degli altri anche in forma disinteressata.

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Tuttavia il prototipo di individuo che combinasse l’aspetto egoistico e quello di propensione ad occuparsi dei suoi simili lo rendeva un personaggio complesso e imprevedibile che non poteva essere in sintonia con la politica economica.

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L’economia infatti necessitava di un uomo estremamente “razionale” con interesse esclusivo per la cura dei suoi propri interessi individuali capace di calcolo utilitaristico avendo come obiettivo la massimizzazione del proprio benessere (va precisato che il termine “razionale” in questo contesto non ha lo stesso significato nell’uso comune o nella filosofia o nell’etica).

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Il significato di razionalità riferito all’uomo economico è di perseguire i propri obiettivi con una mentalità “calcolatrice” avendo come obiettivo esclusivamente il proprio benessere.

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Nel 1844 l’economista John Stuart Mill affermò che l’economia politica non tratta il complesso della natura umana ma vede l’uomo solamente in quanto essere desideroso di ricchezza aggiungendo a questa rappresentazione il disprezzo per il lavoro e l’amore per il lusso.

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L’homo economicus per Mill era il modo in cui la scienza doveva necessariamente procedere.

Nel 1880 l’economista Charles Stanton Devas criticò aspramente Mill per aver dato un’astratta semplificazione della complessa realtà umana perché di fatto stava proponendo come modello un “animale cacciatore di dollari”.

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Nonostante le obiezioni, la teoria economica nel tempo a seguire, supportò il modello Homo economicus fino a plasmarne i comportamenti sociali e persino il linguaggio.

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Se si è fortemente convinti di una determinata natura umana, quali sono le conseguenze nella società?

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L’economista Robert H. Frank sulla base dei questa domanda, condusse una ricerca la cui conclusione è stata che “le nostre credenze sulla natura umana contribuiscono a plasmare la natura umana stessa” ossia diventiamo ciò che ci diciamo che siamo.

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Tendenzialmente gli studenti che hanno una formazione economica sono più egoisti rispetto agli altri.

Robert H. Frank, assieme a Thomas Gilovich e Dennis Regan della  Cornell University, nel 1993 furono impegnati in unindagine sul comportamento degli studenti che avevano una formazione economica**.

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Lo scopo era analizzare in quale misura l’esposizione al modello di interesse personale, proprio delle teorie economiche accademiche, potesse influenzare o alterare la condotta di un individuo.

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Dal risultato emerse che quasi il 61 percento degli studenti di economia mostrava una spiccata propensione ad essere egoista contro il 39 percento degli studenti di altre facoltà.

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A convalidare l’ipotesi secondo cui la formazione accademica influenzi in modo decisivo logiche comportamentali, vi è un altro studio condotto in Germania.

Nel 1997 B. Frank e G. Schulze di un’università tedesca, a seguito di una ricerca analoga, risultò che gli studenti di economia sono significativamente più corruttibili dei colleghi delle altre facoltà.

Nello specifico venne creata una situazione in cui gli studenti si trovavano di fronte alla scelta di perseguire il proprio interesse personale oppure il benessere sociale**.

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L’esperimento aveva come finalità di valutare quanto il livello di egoismo individuale prevalesse sul bene comune.
Risultò un netto distacco tra gli studenti di economia rispetto a studenti di altre facoltà.

I primi avevano spiccati comportamenti opportunistici.

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La tesi però aggiungeva anche un’altra ipotesi e cioè che gli studenti di economia scelgano questo tipo di studi perché già predisposti a una mentalità in cui domina il proprio tornaconto a discapito del benessere degli altri.

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Il fatto diventa inquietante se si pensa che il modello “uomo economico razionale” va oltre le aule universitarie e influenza il mondo reale, quello finanziario per esempio.

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Donald MacKenzie e Yuval Millo, sociologi nell’economia, ebbero a dire:

L’economia finanziaria contribuisce a creare nella realtà il tipo di mercati ipotizzati nella teoria e se le teorie sono sbagliate, i risultati sono catastrofici.”

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Il modello “uomo economico razionale” ha ridefinito anche il linguaggio.
Nel XX secolo è diventata una costante nella vita pubblica parlare di “consumatore” al posto di “cittadino”.

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“Bisogna fare attenzione a ciò che esprimono le parole – spiega Justin Lewis, analista dei media e della cultura – perché il cittadino ha un ruolo in ogni aspetto della vita, da quella culturale, sociale ed economica. Il consumatore invece trova una dimensione solamente nel mercato”.

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Non trovi interessanti questi studi?

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Continua a seguirci per scoprire cosa ci propone Kate Raworth.

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Legenda relativa ai link:

* fonte citata nel libro “Economia della Ciambella”

** approfondimento suggerito da Culturaintour

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⭕ Pronti alla danza dinamica? 1a lezione

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Lʼeconomia della ciambella di Kate Raworth – puntata 14, prima parte

Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo 

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4a mossa, Comprendere i sistemi

Passare dall’equilibrio meccanico

alla Complessità dinamica

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Pronti alla danza dinamica? 1a lezione

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Verso la fine del XIX secolo,  alcuni economisti particolarmente inclini alla matematica decisero di fare dell’economia una scienza rispettabile come la fisica: vennero introdotte equazioni, assiomi e leggi economiche al pari del pensiero di Newton con le leggi fisiche.

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Non ci aiutano i nostri ultimi 100.000 anni di evoluzione in quanto l’Homo Sapiens ha sviluppato il cervello per risolvere e gestire problemi immediati e ora abbiamo alle spalle 150 anni di teorie economiche che hanno consolidato la propensione degli umani a modelli meccanicistici e metafore imprecisi.

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Dobbiamo superare questa eredità genetica e abituarci a sviluppare un “pensiero sistemico” perché la realtà è: dinamica, instabile e imprevedibile.

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Cos’è un sistema?

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Apparentemente è molto semplice perché si basa su un insieme di tre elementi interconnessi:

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– scorte e flussi

– cicli di feedback (o cicli di retroazione)

– ritardo della retroazione

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La faccenda si complica in modo sorprendente e imprevedibile quando questi tre fattori cominciamo ad interagire tra loro.

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Scorte e flussi sono gli elementi base di ogni sistema e possono aumentare e diminuire.

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Facciamo un esempio.

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Immaginiamo una vasca da bagno. L’acqua che esce dal rubinetto fa riempire la vasca e quella che se ne va dallo scarico la fa svuotare. Si potrà notare che il livello dell’acqua cambia seguendo il bilancio tra flussi in entrata e in uscita.

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Come abbiamo detto la faccenda si complica quando entrano in gioco i cicli di feedback perché la vasca da bagno si riempirà o si svuoterà in relazione a quanto velocemente l’acqua esce dal rubinetto e in relazione a quanto velocemente se ne va dallo scarico.

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Quindi scorte e flussi sono gli elementi centrali di un sistema e i cicli di feedback sono le interconnessioni.

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Le interconnessioni sono di due tipi:

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  • cicli di feedback (R) rinforzanti (o positivi). 

e amplificano ciò che sta succedendo creando circoli virtuosi o viziosi di retroazione.

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  • cicli di feedback (B) equilibranti (o negativi) 

e contrastano o compensano quello che succede e tendenzialmente regolano i sistemi.

I feedback equilibranti o di bilanciamento (dall’inglese di Balancing) conferiscono stabilità a un sistema.

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La complessità di un sistema si manifesta in base a come interagiscono tra loro i feedback rinforzanti e equilibranti: determina, come in una danza, il comportamento del sistema – detto comportamento emergente- che si mostra come complesso se non addirittura imprevedibile.

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Per comprendere il funzionamento del diagramma delle relazioni causa-effetto  con una rappresentazione visiva estremamente semplificato, Kate Raworth ci racconta la storia delle galline, delle uova e della strada da attraversare tratto da Business Dynamics di John Sterman.*

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Ogni freccia mostra la direzione della causalità con un segno + oppure –

Ogni coppia di frecce, che rappresenta i flussi, crea un ciclo di feedback R, Rinforzante e B di Bilanciamento.

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Applicando il diagramma alla storia delle galline, abbiamo questa situazione:

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a sinistra, ciclo etichettato con R, Rinforzante

più galline fanno uova e più nascono galline.

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a destra, ciclo etichettato con B, Bilanciamento

più galline si avventurano negli attraversamenti della strada, meno galline rimangono.

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La situazione si complica in relazione alla forza dei cicli. Infatti il tasso di natalità dei pulcini contro il tasso di mortalità delle galline investite apre a vari scenari:..

la popolazione delle galline può crescere esponenzialmente, collassare o stabilizzarsi perché entra in gioco anche l’elemento “ritardo” tra la nascita dei pulcini e i tentativi di attraversare la strada.

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Le retroazioni non sono immediate ma intercorre un lasso di tempo ossia un ritardo tra il momento in cui si ha l’effetto e il momento in cui tale effetto viene preso in considerazione per modificare il sistema.

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Risulta evidente che i ritardi possono generare sia una vantaggiosa stabilità in un sistema ma anche creare una situazione di rigidità nel sistema stesso: ci vuol tempo, per esempio, per costruire la fiducia in una comunità come ci vuol tempo se uno studente deve migliorare i voti per gli esami o se si vuol rimboschire una collina.

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Il “ritardo” può generare grandi oscillazioni quando i sistemi sono lenti a reagire: è capitato a tutti si rimane scottati o gelati mentre si fa la doccia e “litigare” con i rubinetti per regolare l’acqua calda o fredda .

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È tra queste interazioni tra scorte, flussi, feedback e ritardi che nascono i sistemi adattativi complessi:  adattativi perché si evolvono con il tempo e complessi per l’ imprevedibilità del loro comportamento emergente.

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Come ebbe a dire l’economista Orit Gal, “la teoria della complessità ci insegna che gli eventi più importanti rappresentano la maturazione e la convergenza di tendenze sottostanti: riflettono il cambiamento che si è già verificato all’interno del sistema“.

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Molti eventi che sembrano improvvisi in realtà sono la repentina manifestazione di pressioni accumulate nel tempo nel sistema – come il collasso della Lehman Brothers nel 2008.

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Negli ultimi 150 anni, molti economisti avevano ben intuito la complessità dell’economia e, senza successo, cercarono di mettere da parte il pensiero economico basato sull’equilibrio e le scienze fisiche.

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Erano consapevoli del fatto  che le teorie economiche si basavano su analisi dei sistemi estremamente limitate e fondate su assunzioni molto rigide sui modi in cui si comportano i mercati (competizione perfetta, rendimenti, piena informazione, razionalità degli attori del mercato, etc).

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Cominciamo – come ci esorta Kate Raworth – a pensare l’economia in modo sistemico e ci ricorda che:

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il pensiero dell’equilibrio porta con sè il concetto di esternalità che sono gli effetti collaterali , positivi o negativi  derivanti dall’attività economica che impattano sul benessere della collettività o di altre imprese.

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Gli effetti negativi sono dei veri e propri  costi “esterni” (per esempio l’inquinamento o danni ambientali) di cui le teorie economiche non tengono conto ma che, con la globalizzazione, sono stati amplificati generando gravi crisi sociali ed ecologiche.

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Ora parleremo di bolle, boom e  crolli: la dinamica della finanza.

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Le bolle sono il fenomeno in cui il prezzo di un bene continua a salire fino a esplodere.

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È celebre la bolla speculativa, in Inghilterra, sulle azioni della South Sea Company.** Bolla che esplose nel 1720 e che ebbe, come vittima illustre, proprio Isaac Newton che non seppe resistere alle tentazioni del mercato e investì, per poi perdere, i risparmi di una vita.

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Il padre della meccanica era stato disorientato dalla complessità  e commentò amaramente:

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“Posso calcolare il movimento delle stelle ma non la pazzia degli uomini”.

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In realtà paghiamo tutti noi l’incapacità di comprendere i sistemi dinamici.

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Nella finanza è emblematico il crollo del 2008 quando la Lehman Brothers – che allora era la quarta banca d’affari in USA – annunciò il fallimento e trascinò nel baratro la borsa e successivamente i mercati di tutto il mondo.

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Ne intravide l’avvisaglia l’economista Steve Keen che sostenne che “provare ad analizzare il capitalismo escludendo banche, debito e denaro e come cercare di analizzare gli uccelli ignorando che hanno le ali”.

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Non a caso dopo il 2008, molti esperti cercarono di approfondire i lavori dell’economista statunitense – noto per la sua teoria del 1975 dell’instabilità finanziaria e sulle cause delle crisi dei mercati – Hyman Minsky ** che metteva l’analisi dinamica al centro della macroeconomia.

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Minsky sosteneva che la stabilità genera instabilità.

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Perché?

Continua a leggere e lo scopriamo insieme.

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Vediamo la spiegazione con i feedback.

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Nei periodi positivi il mercato acquisisce fiducia portandolo a essere propenso ad assumersi rischi e prendere denaro in prestito e fare investimenti. I prezzi delle abitazioni e di altri beni inizieranno a salire generando ulteriore fiducia nel mercato. In questi periodi di forte espansione si sviluppa un boom di investimenti speculativi.

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Ma prima o poi i prezzi non staranno più al passo con le aspettative causando l’insolvenza dei mutui e il calo del valore dei beni. Il panico degli investitori ne provocherà la vendita massiccia. Il settore finanziario diverrà insolvente, provocando un crollo, chiamato appunto “Momento Minsky“.

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I boom di investimenti speculativi rappresentano l’instabilità di fondo nell’economia capitalistica.*

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Dopo il crollo gradualmente la fiducia ritornerà e il processo ripartirà in un ciclo graduale.

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Cosa insegna il crollo del 2008?

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La struttura di un network finanziario può essere punto di forza ma anche di debolezza: si rivela efficace se si comporta come ammortizzatore ma può anche trasformarsi in un amplificatore degli shock.

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Come ammise nel suo discorso del 2011 Gordon Brown, primo ministro britannico all’epoca della crisi finanziaria, abbiamo creato un sistema di monitoraggio che osservava le singole istituzioni. Quello fu il grande errore. Non abbiamo capito che il rischio era diffuso nel sistema, non abbiamo capito il coinvolgimento reciproco delle diverse istituzioni e quando globali fossero le cose.**

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La buona notizia è che avvieranno nuovi modelli dinamici dei mercati finanziari: nel team figurano Steve Keen, l’economista che intravide i presupposti del crollo finanziario del 2008 e Russell Standish, programmatore informatico: il programma per computer sulla dinamica dei sistemi non poteva che chiamarsi “Minsky”** e terrà conto dei feedback delle banche, del debito e del denaro.

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Finalmente un approccio alla complessità per comprendere gli effetti dei mercati finanziari sulla macro-economia.

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Termina qui questo articolo che è stato piuttosto “complesso”.
Ti aspettiamo con la prossima puntata e parleremo della dinamica della diseguaglianza.

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Legenda relativa ai link:

* fonte citata nel libro “Economia della Ciambella”

** approfondimento suggerito da Culturaintour

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⭕ Pronti alla danza dinamica? 2a lezione

, in

Lʼeconomia della ciambella di Kate Raworth – puntata 14, seconda parte

Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo 

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4a mossa, Comprendere i sistemi

Passare dall’Equilibrio meccanico

alla Complessità dinamica

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Pronti alla danza dinamica? 2a lezione

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Ora che stiamo imparando a diventare “pensatori sistemici”, lo abbiamo visto qui, non ci possiamo più stupire di quanto succede nelle nostre società e a livello globale con la dinamica della disuguaglianza.

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Nell’economia dell’equilibrio – ossia nell’economia mainstream – la disuguaglianza ha un’importanza marginale. Il focus è rivolto ai mercati che devono essere efficienti.

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In realtà viviamo in un mondo in disequilibrio, un mondo in cui entrano in gioco i feedback per cui si generano circoli virtuosi della ricchezza e circoli viziosi della povertà che fanno finire le persone agli estremi opposti nella distribuzione della ricchezza.

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Gli esperti di sistemi chiamano questo fenomeno la trappola del “successo a chi ha successo”: i vincitori continuano a vincere e i perdenti continuano a perdere: la teoria dell’equilibrio potenzia i feedback rinforzanti generando oligopoli se non addirittura monopoli.

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Come sosteneva l’economista Piero Sraffa sin dal 1926 molte imprese, perlopiù quelle che producono beni di consumo, operano in condizioni di costi decrescenti che permettono di porsi sul mercato a prezzi ridotti come se operassero in regime di monopolio. **

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La vantata concorrenza perfetta dell’equilibrio meccanico non esiste e questo emerge per esempio nel settore agroalimentare dove il commercio dei cereali è concentrato in soli 4 colossi.**

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Ti basta giocare a Monopoli per conoscere il sistema del “successo a chi ha successo”.

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Tutti i giocatori cominciano alla pari ma, quelli che per primi riescono a piazzare gli  alberghi nelle migliori proprietà, potranno accaparrarsi gli affitti dagli altri giocatori e quindi permettersi di comprare altri alberghi.

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Così finisce che più alberghi si possiedono più alberghi si possono comprare mandando in bancarotta gli altri.

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Pensare che le regole del gioco inizialmente prevedevano la cooperazione fra i giocatori.

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Elizabeth Magie,  l’inventrice di Monopoli, si ispirò  alle teorie di Henry George, un economista che osteggiava la proprietà privata della terra ** il quale sosteneva che ciò che si trova in natura appartiene a tutta l’umanità.

Nelle intenzioni di creare un gioco, Elizabeth Magie voleva denunciare l’ingiustizia derivante da proprietà detenute da pochi. Nel 1903, dopo molti anni di lavoro, il gioco venne terminato.

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Lo svolgimento del gioco era articolato in due fasi ognuna delle quali seguiva un proprio regolamento.

Una fase prevedeva una serie di regole con una visione per la “ricchezza condivisa” – ispirata alla proposte di Henry George che sosteneva una tassa sul valore del terreno – l’altra invece era indirizzata a una visione “monopolista” dove vince chi riesce a mandare in bancarotta gli altri.

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L’ approccio dualistico che aveva previsto Elizabeth Magie voleva essere uno strumento didattico volto a dimostrare che il primo insieme di regole era eticamente superiore e portava a risultati sociali completamente differenti se messi a confronto.

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Il “Monopoli” che conosciamo e che si è largamente diffuso in tutto il mondo però ha regole completamente diverse. Negli anni Trenta infatti, la Parker Brother acquistò il nome del brevetto del gioco “The Landlor’s Game” (“La strategia del proprietario terriero”) – nome originale che diede Elizabeth Magie – e lo rilanciò come “Monopoli” diventando quindi un nuovo gioco. Venne infatti mantenuta solo la versione “monopolista” semplificandola e modificando alcune regole.

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La stessa storia del Monopoli ha risvolti inquietanti** legati proprio all’ingiustizia e alla ricchezza a tutti i costi e sono emersi casualmente come spiegato con un articolo sul New York Times solo nel 2015.

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La dinamiche distributive, dopo essere state espresse con i giochi da tavolo, hanno trovato ampio spazio con simulazioni computerizzate. È quanto hanno fatto nel 1992 Joshua Epstein e Robert Axtell con il loro modello per la simulazione sociale.

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Come nascono le strutture sociali e i comportamenti di gruppo dall’interazione degli individui? **

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Partendo da questa domanda realizzarono una simulazione chiamata Sugarscape.** I comportamenti collettivi fondamentali come la formazione di gruppo, la trasmissione culturale, il combattimento e il commercio “emergono” dall’interazione dei singoli agenti seguendo poche semplici regole.

Anche in questo caso emerse che le dinamiche di un sistema sono complesse e non si possono ricondurre alla tesi che le disuguaglianze sul reddito riflettono il talento e/o il merito nella società.

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Il fenomeno secondo cui “chi ha, avrà sempre di più” è già noto da Duemila anni con il versetto del Vangelo di Matteo che recita:

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“A chiunque ha, sarà dato
e sarà nell’abbondanza.
Ma a chi non ha, sarà tolto
anche quello che ha”

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Le parole dell’apostolo riconducevano ai doni spirituali della fede di cui bisogna aver cura.

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Il mondo dell’economia, finanza e sociologia si richiama al concetto del Vangelo con il cosiddetto effetto Matteo** per spiegare il crescente divario e le dinamiche legati alla ricchezza e/o povertà che tendono ad accumularsi o amplificarsi.

La forbice della disuguaglianza** a livello globale è sempre più ampia. Occorre dunque entrare nello spazio equo e sostenibile della Ciambella.

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Tra poco spiegheremo le dinamiche dei cambiamenti climatici “usando” l’acqua nella vasca da bagno.

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L’economia mainstream considera “effetti collaterali” – positivi o negativi che siano – gli impatti derivanti dall’attività produttiva.

Questi sono considerati una preoccupazione marginale tanto che li definisce “esternalità”.

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Tuttavia dal momento che l’economia è incorporata nella biosfera non si possono ignorare gli effetti che provoca perché si amplificano – sotto forma di feedback – fino a bloccare il sistema economico stesso che li ha generati.

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Le cosiddette esternalità ambientali, come l’accumulo di gas serra nell’atmosfera, hanno innescato i cambiamenti climatici con conseguenze catastrofiche  che – a differenza di una crisi  bancaria – non danno la possibilità di porvi rimedio all’ultimo momento.

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Infatti, nel caso dei cambiamenti climatici, fermare le emissioni di CO2 non equivale a eliminarne l’accumulo: ipotizzando per assurdo di poter fermare all’istante le emissioni, la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera continuerà a generare gli effetti negativi sugli ecosistemi del pianeta.

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Per far comprendere ai suoi studenti l’alterazione dei cicli di feedback, in particolare la relazione tra emissioni di CO2 e concentrazione di CO2, John  Sterman – docente del MIT e scienziato dei sistemi – usò la metafora della vasca da bagno.

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La vasca da bagno rappresenta l’atmosfera, l’acqua del rubinetto le emissioni di CO2 e lo scarico della vasca sono le foreste e gli oceani.

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Ora vediamo cosa succede con la dinamica dei sistemi.

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L’acqua che esce dal rubinetto tenderà a riempire la vasca ma se ne andrà giù dallo scarico.

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Questo avverrà se il getto scorrerà lentamente. Ma se l’acqua dal rubinetto sarà abbondante, in poco tempo la vasca sarà colma perché dallo scarico non andrà via abbastanza acqua.

Allo stesso modo, le emissioni di CO2 prodotte dalle attività umane sono maggiori di quelle che i sistemi naturali (piante e oceani) riescono ad assorbire.

The carbon bathtub, immagine semplificata (con il permesso di pubblicazione di Climate Interactive)

Sterman disegnò la vasca per la prima volta nel 2009 (vedi qui):  allora i flussi annuali di carbonio in entrata in atmosfera erano di 9 miliardi di tonnellate mentre quelli in uscita, grazie all’assorbimento di foreste e gli oceani, erano di 5 miliardi. Questo significa che solo per compensare le emissioni di gas serra queste devono essere dimezzate.

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Secondo il prof. Sterman, più che maggior informazione, occorre un apprendimento esperienziale per comprendere le dinamiche dei sistemi complessi.** Partendo da queste considerazioni per stimolare lo sviluppo di un pensiero sistemico, John Sterman e i suoi colleghi hanno messo a punto il “C-Roads** (Climate Rapid Overview and Decision Support), un dispositivo computerizzato per aiutare i governi a visualizzare gli impatti delle loro politiche. C-Roads elabora istantaneamente le implicazioni a lungo termine derivanti dagli impegni nazionali presi per la riduzione delle emissioni di gas serra.

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Sperimentare direttamente gli effetti delle dinamiche dei flussi e degli assorbimenti ha un duplice obiettivo: consente di comprendere sia l’urgenza di intervenire, sia l’ampiezza della trasformazione energetica necessaria per rispettare il limite dei confini planetari della ciambella.

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Seguici con la terza e ultima parte della danza dinamica.

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Legenda relativa ai link:

* fonte citata nel libro “Economia della Ciambella”

** approfondimento suggerito da Culturaintour

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⭕ Pronti alla danza dinamica? 3a lezione

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Lʼeconomia della ciambella di Kate Raworth – puntata 14, terza parte

Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo 

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4a mossa, Comprendere i sistemi

Passare dall’Equilibrio meccanico

alla Complessità dinamica

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Pronti alla danza dinamica? 3a lezione

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Nella 2a lezione della danza dinamica abbiamo visto che la faccenda è molto critica poiché ci troviamo in una spirale crescente sia di disuguaglianza sociale che di degrado ecologico.

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Antiche civiltà –  come i Maya, gli abitanti dell’Isola di Pasqua gli indiani Anasazi, gli antichi Egizi, gli Angkor Wat in Cambogia, i Great Zimbabwe e così via – sono collassate e, secondo gli archeologi, alla base del fenomeno c’erano problemi ambientali.

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Non c’è ovviamente una sola ragione che spieghi il declino di una società, sostiene Jared Diamond ** il quale, per comprendere questo argomento molto complesso, ha condotto una lunga indagine sulla storia dei Normanni della Groenlandia, un popolo ricco e potente. Al termine della ricerca, Diamond ha individuato ben cinque fattori che ne hanno determinato l’estinzione.

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E le società di oggi? Cosa le rende vulnerabili?

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Diamond si spinge a dare due indizi.

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Il primo consiste nella divergenza tra gli interessi a breve termine della classe dirigente e quelli a lungo della società intera.

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L’altro è la difficoltà a prendere buone decisioni che però non sono in linea con i valori fortemente radicati e, da punto di forza, diventano punti di debolezza.

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Il pensiero sistemico può aiutarci a capire se, con il nostro modello sviluppo economico, la nostra società corre rischi?

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La risposta è affermativa e dobbiamo risalire al 1972 con una delle prime elaborazioni dell’economia globale che ha visto l’applicazione della dinamica dei sistemi.

Il Club di Roma **, un’associazione composta da scienziati, umanisti e imprenditori legati dalla comune preoccupazione per la situazione mondiale, commissionò al MIT – Massachusetts Institute of Technology – di condurre una ricerca per capire quali scenari si prospettavano con la progressiva crescita umana sul pianeta.

Lo studio si basava sulla simulazione al computer di vari scenari e individuava le conseguenze sull’ecosistema terrestre seguendo l’attuale modello di sviluppo proseguendo cioè con il business-as-usual **.

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Vennero prese in considerazione cinque variabili:

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. crescita demografica

. produzione alimentare

. industrializzazione

. inquinamento

. consumo di risorse non rinnovabili.

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Il rapporto venne pubblicato con il libro  “The Limits to Growth” * *. Donella Meadows, Dennis Meadows e altri ne furono gli autori.  Il rapporto portava alla conclusione che – in un mondo di dimensioni finite con risorse limitate associato a una continua crescita di variabili come inquinamento e popolazione – si sarebbe giunti al collasso nell’arco di cento anni.

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I risultati dello studio furono considerati un ingiustificato catastrofismo e le reazioni in tutto il mondo furono di grande indignazione. **

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Gli economisti mainstream derisero i criteri usati per le proiezioni affermando che tenevano poco conto del feedback equilibrante del meccanismo dei prezzi nei mercati. Se le risorse non rinnovabili dovessero scarseggiare, precisarono, i prezzi salirebbero determinandone un uso più efficiente, un maggior utilizzo di sostituti delle risorse scarse e nuove fonti di energia.

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Il ragionamento presentava una lacuna: a differenza di combustili, minerali e metalli che hanno un prezzo, il ruolo e gli effetti dell’inquinamento, non avendo un prezzo, non generavano alcun feedback diretto da parte del mercato.

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Dagli anni Settanta, periodo di pubblicazione del rapporto “I limiti dello sviluppo”, ad oggi abbiamo lasciato alle spalle parecchi decenni e gli scenari ipotizzati si sono rilevati profetici anzi, quello che era chiamato semplicemente “inquinamento” si è trasformato in cambiamenti climatici.

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Siamo all’inizio del XXI secolo e abbiamo già oltrepassato quattro confini planetari su nove.

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Miliardi di persone affrontano pesanti privazioni mentre l’1% possiede metà della ricchezza  finanziaria del mondo. 

Questo vuol dire che ci sono le condizioni per il collasso.

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Per correre ai ripari occorre:

passare dall’attuale economia che divide e danneggia l’ambiente

a un’economia progettata per distribuire e per rigenerare l’ambiente
ossia :

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..che distribuisce per principio perché fa circolare il valore di ciò che viene prodotto e non si limita a concentrarlo in un élite;

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.che è rigenerativa per principio perché vede le persone che partecipano attivamente alla rigenerazione dei cicli vitali della Terra in modo che l’umanità possa prosperare all’interno dei confini planetari.

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Per usare una metafora gli economisti devono dire “addio a pinze e benvenute alle cesoie”.

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Addio a un’economia “meccanica” che pensa di rimettere in equilibrio i mercati con controlli teorici e benvenuta a un’economia “biologica” in continua trasformazione perché soggetta ai cicli di feedback.

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Così come fanno i giardinieri che si prendono cura delle coltivazioni, dai semi alle piante, scegliendo il terreno giusto per farle crescere rigogliose fino alla maturazione * allo stesso modo gli economisti devono pensare – come dice Eric Beinhocker – alle politiche come a un portfolio adattabile di esperimenti che contribuiscono a modellare l’evoluzione dell’economia della società del tempo.

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Organizzare esperimenti su piccola scala con le politiche per provare una serie di interventi. Abbandonare quelli che non vanno bene e ampliare quelli che funzionano.*

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Politiche adattative sono cruciali di fronte alle odierne sfide ecologiche e sociali che sono inedite e in una società globalmente interconnessa.

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I sistemi complessi si evolvono attraverso innovazioni e deviazioni per questo bisogna dare spazio a nuove iniziative *: nuovi modelli di business, valute complementari e progettazione di open source, così da trovare un sistema che possa evolversi e adattarsi rapidamente.

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Nessuno sa cosa funzionerà e questi esperimenti sono uno strumento evolutivo che guida la trasformazione economica distributiva e rigenerativa di cui abbiamo bisogno.

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Il concetto dei “punti di influenza” invece ci giunge da Donella Meadows – autrice principale del rapporto “I limiti dello sviluppo”.

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I punti di influenza in un sistema complesso sono piccoli cambiamenti che conducono a un più grande cambiamento complessivo. Gli economisti mainstream si focalizzano su aspetti poco influenti per esempio sull’aggiustamento dei prezzi. Bisogna invece andare a intervenire bilanciando i cicli di feedback dell’economia o meglio ancora individuare lo scopo.

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Chiedersi sempre come si è arrivati ad una certa situazione, dove si vuol andare e chiedersi cosa funziona bene in un sistema: queste erano le indicazioni di Donella Meadows.

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Non siate interventisti che non pensano e distruggono le stesse capacità di mantenimento del sistema” – suggerì – “prima di migliorare le cose, fate attenzione al valore di quello che c’è già *

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Grande conoscitrice della danza dei sistemi socio-ecologici, sottolineava che i sistemi efficaci hanno tre proprietà che devono essere sapientemente gestiti:

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  • una giusta gerarchia,
  • auto-organizazione,
  • resilienza

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Giusta gerarchia

si manifesta quando i sotto-sistemi sono al servizio del tutto di cui sono parte.

Spieghiamo questo concetto con una metafora.

Le cellule epatiche sono al servizio del fegato, organo che è al servizio dell’organismo umano. Se queste cellule si moltiplicano rapidamente diventano un tumore e distruggono il corpo.

La giusta gerarchia in ambito economico significa per esempio, dare al settore finanziario il ruolo di essere al servizio dell’economia che a sua volta è a servizio della vita. *

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Auto-organizzazione

è la capacità di un sistema di rendere più complesse le sue strutture.

La metafora è una cellula che si divide oppure una città in espansione.

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Nell’economia gran parte dell’auto-organizzazione nel mercato avviene con il meccanismo dei prezzi (come sosteneva Adam Smith) ma questo fenomeno avviene anche con i beni comuni e i nuclei familiari (come sosteneva Elinor Ostrom. ** Questi tre settori possono auto-organizzarsi efficacemente e lo Stato dovrebbe sostenerli tutti e tre.

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Resilienza

è la capacità di un sistema di sopportare gli stress e di ritornare al suo stato iniziale o di adattarsi alla nuova condizione come accade, per esempio, alla tela di un ragno dopo una tempesta.

L’economia dell’equilibrio ha come obiettivo di massimizzare l’efficienza senza accorgersi che la poca flessibilità la resa vulnerabile.

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Meglio sviluppare la diversità nelle strutture economiche ne amplifica la resilienza rendendo l’economia più capace di adattarsi a shock e pressioni.

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Esiste un’etica nell’economia?

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George DeMartino è un economista che ricerca i fondamenti etici della teoria economica, della politica e della pratica economica professionale. **

Nel 2012 durante una sua conferenza DeMartino sostenne che “quando una professione cerca di avere influenza sugli altri, si assume necessariamente degli obblighi morali, che li riconosca o no”.

La principale regola decisionale negli interventi politico-economici è quella del “Maxi-max”: si considerano tutte le possibili opzioni politiche e si sceglie quella che sembrerebbe la migliore se funzionasse trascurando se realmente può funzionare e questa modalità si traduce con il danno provocato dalle politiche shock a base di privatizzazioni e liberalizzazioni del mercato.

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George DeMartino con il suo libro “The Economist’s Oath* – il giuramento degli economisti – si ispira espressamente al giuramento di Ippocrate ** per la medicina che guida i futuri medici con precisi principi etici. Così come la medicina ha perfezionato la propria etica professionale e ne ha sancito i principi così si può fare per l’economia.

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Ecco  quattro principi etici da tenere presente in una sorta di Giuramento dell’economista del XXI secolo: per guidare la formazione di ogni studente di economia e di ogni politico:

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1.operare al servizio della prosperità umana in un fiorente intreccio di vita riconoscendo tutto ciò che dipende da questo intreccio;

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2.rispettare l’autonomia delle comunità di cui si è al servizio assicurandosi di avere il loro coinvolgimento e consenso e considerando le diseguaglianze e differenze che possono presentare;

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3.essere prudenti nella pianificazione delle politiche minimizzando i rischi di danni specie in circostanze di incertezza;

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4.lavorare con umiltà rendendo trasparenti le assunzioni  e i limiti dei propri modelli e riconoscendo punti di vista alternativi.

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Nella parole di Donella Meadows: “Il futuro non può essere predetto ma può essere visualizzato e portato amorevolmente alla realizzazione. I sistemi non possono essere controllati ma possono essere progettati e riprogettati. Possiamo ascoltare quello che i sistemi ci dicono e scoprire come le loro proprietà e i nostri valori possano collaborare“. *

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Le attuali dinamiche dell’economia globale conducono al rischio reale di arrivare al collasso, dunque che gli economisti del XXI abbraccino la complessità e trasformino le economie locali e globali per renderle distributive e rigenerative.

È un progetto entusiasmante e – aggiunge ironicamente Kate Raworth – probabilmente anche Newton vorrebbe partecipare al lavoro.

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Seguici con la prossima falsa teoria dell’economia del XX secolo: la crescita livellerà.

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Legenda relativa ai link:

* fonte citata nel libro “Economia della Ciambella”

** approfondimento suggerito da Culturaintour

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⭕ Lo Schwarzenegger pensiero in economia

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Lʼeconomia della ciambella di Kate Raworth – puntata 15

Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo 

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5a mossa, Progettare per distribuire

Passare da “la crescita appianerà le disuguaglianze”

a distributivi per principio

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Lo Schwarzenegger pensiero in economia

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Nel campo dei culturisti negli anni Sessanta, il cui massimo esponente era  Arnold Schwarzenegger e la massima in voga era: “Niente dolore, niente guadagno”. Questa filosofia sembra si addica perfettamente alla logica dell’economia del XX secolo: le nazioni devono sopportare l’inevitabile dolore sociale della profonda diseguaglianza se vogliono creare una società più ricca e più equa per tutti.

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Questo concetto paradossale porta anche molti politici ad accettare e giustificare misure di austerità  che finiscono per amplificare i sacrifici proprio delle categorie meno abbienti con la conseguenza di portarci ancora più lontano dallo spazio sicuro e giusto della Ciambella.

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È opportuno che la filosofia degli economisti del XXI secolo invece consideri la crescente diseguaglianza come errore di pianificazione economica adoperandosi perché le economie siano più redistributive sul piano della ricchezza che deriva dalla proprietà terriera, dalla creazione del denaro, dall’impresa, dalla tecnologia e dalla conoscenza.

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Invece di affidarsi solo al  mercato e alle soluzioni statali, è necessario dare un ruolo al grande potenziale dei beni comuni.

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Le montagne russe dell’economia

Fino a qualche decennio fa era facile individuare le persone a basso reddito e prive di mezzi minimi per vivere perché si trovavano nei paesi classificati dalla World Bank con un Pil inferiore a 1000 dollari/anno.

Questi stessi paesi oggi sono stati riclassificati dalla Word Bank in nazioni a medio reddito perché hanno migliorato il livello di vita. Quindi i tre quarti delle persone povere nel mondo ora risultano essere in paesi a medio reddito.      

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 Si tratta di paesi come Cina, India, Indonesia e Nigeria dove comunque la diseguaglianza sta aumentando.

Nei paesi classificati a basso reddito vivono 300 milioni di persone e si trovano in prevalenza dell’Africa Sub-sahariana.

Grandi disparità esistono anche in paesi ad alto reddito come gli Stati Uniti e Gran Bretagna.

L’eliminazione della povertà è tra le priorità dell’agenda 2030.

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Molti dei padri fondatori dell’economia e filosofi si sono interessati al tema della diseguaglianza: da Karl Marx a Alfred Marshall e Pareto. 

Ognuno con la propria teoria.

Fino ad arrivare al 1955 quando Simon Kuznets ritenne di avere individuato la legge della diseguaglianza e la rappresentò in un grafico noto con il nome di “curva di Kuznets**: come in una sorta di corsa sulle montagne russe, secondo Kuznets in un’economia in crescita, la disparità del reddito prima aumentava, poi si livellava per poi scendere. 

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La sua conclusione dunque era che l’aumento della disuguaglianza fosse una fase inevitabile nel percorso della crescita economica.

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A questo punto possiamo riprendere le parole di Arnold: “Niente dolore, niente guadagno” e, con una vena sarcastica, chiamare questa filosofia economica “Schwarzenomic”.

Il grafico a “U” divenne un’icona nel modello dell’economia dello sviluppo rafforzando la teoria che i paesi poveri avrebbero dovuto concentrare il reddito nelle mani dei ricchi affinché potessero risparmiare e investire ed innescare così la crescita del Pil.

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W. Arthur Lewis, economista, promotore di questa teoria inventò il “modello di crescita come sviluppo” e si spinse ad affermare: “lo sviluppo deve essere anti-ugualitario”.*

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Negli anni Settanta Kuznets e Lewis ricevettero il Nobel per l’economia.

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La World Bank trattava la curva di Kuznets come legge economica per fare proiezioni su quanto tempo serviva per far scendere i livelli di povertà nei paesi a basso e medio reddito e così anche gli economisti continuarono a monitorare l’andamento della crescita e della disuguaglianza.

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Solo negli anni Novanta, avendo un lasso temporale sufficiente, si poterono analizzare i dati effettivi e il risultato fu che la legge della curva di Kuznets venne smentita dai fatti in quanto si erano verificati i più svariati scenari. In alcuni casi la disuguaglianza aumentò, poi diminuì e poi aumentò, in altri aumentò o diminuì senza più modificarsi.

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Insomma “il modello consisteva nell’assenza di un modello”.

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In alcuni casi la curva di Kuznets venne smentita in modo evidente.

Tra il 1965 e 1990 avvenne una sorta di miracolo: paesi come Giappone, Corea del Sud, Indonesia  e Malesia ebbero una crescita economica accompagnata da una forte riduzione della diseguaglianza. 

Questo importante traguardo fu possibile soprattutto grazie alla riforma dei terreni agricoli che consentì di far crescere il reddito dei proprietari dei piccoli terreni.

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Parallelamente ci furono enormi investimenti pubblici nella sanità e nell’istruzione e politiche industriali che fecero aumentare i salari bloccando allo stesso tempo i prezzi dei generi alimentari. 

Questo dimostrava che la curva di Kuznets con la sua equazione “disuguaglianza=crescita”  era evitabile.

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Nel 2014 l’economista francese Thomas Piketty presentò un’analisi sulle dinamiche della distribuzione nel sistema capitalistico. 

Partendo delle domande  “Chi guadagna cosa” e “chi possiede cosa” distinse due categorie:

1.nuclei che possiedono il capitale (terreni, case e beni finanziari) beneficiando delle rendite, dividendi e interessi.

2.nuclei che possiedono solo il lavoro che genera solo il salario.

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Confrontando i trend di crescita delle fonti di reddito sopra indicate, Piketty concluse che le economie occidentali (o altre simili) stanno arrivando a pericolosi livelli di disuguaglianza.

Il motivo è che la rendita da capitale ha avuto la tendenza a crescere più velocemente dell’economia causando una maggiore concentrazione di ricchezza.

Questo fenomeno si accentua ancora di più da lobby e influenze politiche che promuovono gli interessi di chi è già ricco.

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Il capitalismo genera automaticamente disuguaglianze arbitrarie e insostenibili che mettono profondamente a rischio i valori meritocratici sui quali si fondano le società democratiche”.

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Piketty mise in evidenza che lo studio di Kuznets era stato condotto in un periodo in cui l’economia era prospera.

La disparità di reddito e la disparità di ricchezza negli Stati Uniti e in Europa erano diminuite nella prima metà del XX secolo come aveva rilevato Kuznets ma la tendenza a equalizzare ipotizzata nella logica dello sviluppo capitalistico si collocava in un’epoca storica molto particolare: ci si trovava con due guerre mondiali alle spalle e la Grande depressione. Il contesto vedeva scarsi capitali e i governi disposero ingenti investimenti pubblici nell’istruzione, nella sanità e nella sicurezza sociale e ciò diede lo slancio a un’economia fiorente.

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Perché la disuguaglianza è un fattore allarmante?

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I Paesi che presentano una forte disuguaglianza hanno implicazioni sistemiche non solo sul ceto povero ma danneggiano il tessuto sociale nel suo complesso a livello economico, politico, sociale, sanitario, ecologico. 

Gli effetti si traducono nella realtà con abbandoni scolastici, delinquenza, malattie mentali, gravidanze adolescenziali, uso di droga, comunità disfunzionali, degrado ambientale, etc.

Quando i livelli di iniquità sono elevati è a rischio la stessa democrazia perché il potere si concentra nelle mani di pochi e mette sul mercato l’influenza politica.

Nel 2000 le parole schiette di Al Gore, ex vicepresidente degli Stati Uniti sintetizzano queste dinamiche: “La democrazia americana è stata manomessa e la manomissione consiste nel finanziamento delle campagne elettorali”.

La disuguaglianza contribuisce al degrado ecologico e mina una società perché erode il capitale sociale fondato sulle connessioni, la fiducia e le regole della comunità.  Un’azione collettiva è determinante per chiedere una legislazione ambientale.

Numerose ricerche hanno dimostrato che la disuguaglianza non fa crescere le economie più velocemente ma anzi le rallenta.

Società più eque siano esse ad basso reddito che ad alto, sono più sane e più felici.

Il mito “niente dolore, niente guadagno” della curva di Kuznets è stato confutato.

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Avanti col network!

Non perderti la prossima puntata.

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Legenda relativa ai link:

* fonte citata nel libro “Economia della Ciambella”

** approfondimento suggerito da Culturaintour

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⭕ Fare rete: l’importanza di mettersi insieme

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Lʼeconomia della ciambella di Kate Raworth – puntata 16, prima parte

Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo 

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5a mossa, Progettare per distribuire

Passare da “la crescita appianerà le disuguaglianze”

a distributivi per principio

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Fare rete: l’importanza di mettersi insieme

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La curva di Kuznets è stata smentita.

Ora, se vogliamo portare tutti nella zona sicura ed equa della Ciambella è necessario un nuovo approccio.
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Non aspettate che la crescita economica riduca la disuguaglianza perché non lo farà.

Invece, create un’economia basata sulla distribuzione.”

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Il nodo centrale è rimodulare la distribuzione del reddito, della ricchezza, del tempo e del potere. Indubbiamente è un obiettivo molto difficile ma emergono molte possibilità se si ragiona in termini sistemici.

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Per prima cosa Kate Raworth propone una nuova immagine che rappresenta la progettazione distributiva (vedi immagine sopra).

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Si tratta di un network diffuso i cui nodi, più grandi o più piccoli, sono interconnessi in una rete di flussi.

In natura queste strutture sono organizzate secondo frattali e riportare questo modello in un’economia può portare a una distribuzione più equa del reddito e della ricchezza.

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Cos’è un frattale?

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Il frattale è un “oggetto geometrico”** in cui un motivo identico si ripete in tutte le direzioni dando origine a strutture eccellenti per distribuire in maniera affidabile le risorse all’interno di un sistema.

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La natura è ricca di frattali: possiamo immaginare per esempio la chioma di un albero dove è facile notare come ogni singolo rametto riproduca in scala ridotta il proprio ramo e in miniatura l’albero nella sua grandezza.

I frattali, queste curiose forme geometriche, li troviamo ovunque: in un girasole, in un broccolo in un fiume e nella ramificazione del sistema respiratorio.     

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Risorse (come energia, nutrimenti, materiali e informazioni) fluiscono in questi network tenendo conto di un equilibrio tra efficienza e resilienza.

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L’efficienza viene raggiunta quando un sistema ottimizza il suo flusso di risorse per raggiungere i suoi obiettivi.

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La resilienza si basa sulla differenziazione e sull’abbondanza di connessioni nei periodi di shock o cambiamento.

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L’equilibrio è molto importante.

Un eccesso di efficienza rende un sistema vulnerabile.

Un eccesso di resilienza lo rende stagnante.

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Per comprendere i network naturali, un team di ricercatori e teorici del network – Sally Goerner, Bernard Lietaer e Robert Ulanowics – studiarono le varie strutture e i flussi di risorse presenti negli ecosistemi in natura: se vogliamo imparare dai network naturali per creare un’economia prospera, dobbiamo considerare diversità e distribuzione.

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Un  network economico diventa  iniquo e fragile se gli attori più forti riducono la pluralità e la diversità degli attori piccoli e medi. Vedi ad esempio la situazione dei colossi bancari e delle multinazionali in tutti i settori merceologici.

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Lo sviluppo economico deve focalizzarsi di più sullo sviluppo umano, comunitario e del business su piccola scala perché la vitalità a lungo termine e qualsiasi dimensione dipende da queste cose”.*

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Come possiamo distribuire il valore (materiali, energia, conoscenza e reddito) in modo molto più equo?

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Ridistribuire il reddito e la ricchezza

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Nella seconda metà del XX secolo, le politiche volte alla ridistribuzione riguardavano:

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1.Tasse progressive su reddito e trasferimento di denaro

2.Protezione del mercato del lavoro (salario minimo)

3.Servizi pubblici come sanità, istruzione, edilizia sociale.

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Politiche fortemente minate dalla corrente neoliberista.

Tuttavia all’inizio del XXI si notano politiche ridistributive: a volte sono segnali e altre volte sono interventi concreti.

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Nei paesi più ricchi molti economisti mainstream ritengono opportuno innalzare le aliquote fiscali per i redditi più alti e tassare le rendite da capitale.

A livello globale alle aziende viene chiesto di introdurre un salario massimo per i dirigenti.

Alcuni governi, come in India, offrono un accesso garantito al lavoro a che ne abbia necessità.

Tuttavia queste politiche mirano alla distribuzione del reddito e non della ricchezza che lo genera.

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Secondo l’economista e storico Gar Alperovitz  per affrontare la diseguaglianza alla radice bisogna democratizzare la proprietà della ricchezza: perché “i sistemi politico-economici sono in gran parte definiti dal modo in cui la proprietà viene detenuta e controllata.”

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Seguendo un modello sistemico integrato, nel XXI secolo emergono cinque possibilità di  trasformare le dinamiche del possesso della ricchezza riconducibili a :

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1.Possesso della terra

2.Creazione del denaro

3.Impresa

4.Tecnologia

5.Conoscenza

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L’aspetto interessante è che alcune delle possibilità dipendono da riforme statali e quindi richiedono un processo di cambiamento a lungo termine.

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Altre possono essere avviate da movimenti grass-root ** ossia movimenti dal basso e posso iniziare immediatamente.

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Modificando le dinamiche della ricchezza si contribuisce alla trasformazione da economie divisive a distributive riducendo nel processo povertà e disuguaglianza.

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La prossima volta vedremo nei dettagli le cinque aeree per trasformare le dinamiche del possesso della ricchezza.

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Legenda relativa ai link:

* fonte citata nel libro “Economia della Ciambella”

** approfondimento suggerito da Culturaintour

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⭕ Di chi è la terra? Chi crea il denaro?

, in

Lʼeconomia della ciambella di Kate Raworth – puntata 16, seconda parte

Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo 

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5a mossa, Progettare per distribuire

Passare da “la crescita appianerà le disuguaglianze”

a distributivi per principio

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Di chi è la terra? Chi crea il denaro?

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Nel XXI secolo abbiamo l’opportunità di trasformare le dinamiche del possesso della ricchezza e “di distribuire per principio”. Le aree su cui intervenire sono cinque.

In questo articolo vedremo la terra e il denaro.

Queste innovazioni contribuiranno a cambiare le economie da divisive a distributive e come effetto ridurranno povertà e disuguaglianze.

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1..Di chi è la terra?

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Nel corso della storia dell’uomo, la proprietà è stata gestita nei modi più disparati e con le logiche più svariate. A partire dalla strategia di Enrico VIII nel XVI secolo di sopprimere i monasteri inglesi e svenderne le terre per arrivare alla visione di Henry George che ispirò la corrente economica nota come georgismo **, secondo la quale ognuno ha il diritto di appropriarsi di ciò che realizza con il proprio lavoro mentre tutto ciò che si trova in natura, principalmente la terra, appartiene all’intera umanità e proponeva un’imposta sul valore fondiario.

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Via via così nel corso dei secoli per arrivare ad Adam Smith che celebrava la capacità del mercato di auto-organizzarsi e promuoveva il passaggio della terra a proprietà privata. Garrett Hardin, dal canto suo, riteneva che gli individui utilizzano un bene comune per interessi propri e i diritti di proprietà non sono chiari introducendo nel 1968 il concetto di “Tragedia dei beni comuni* **

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Elionor Ostrom, Nobel nel 2009**, contestò la tesi di Hardin con una serie di studi in merito all’auto-organizzazione dei beni comuni.** Ostrom e il suo team di ricercatori analizzarono l’uso condiviso delle risorse in varie comunità nel mondo e dall’indagine emerse che molte di queste comunità gestivano le loro terre e le risorse comuni meglio dei mercati e dei sistemi statali.*

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L’esperta ritiene che non esiste una panacea – ossia un rimedio universale che cura tutte le problematiche – per gestire bene la terra e le sue risorse: né il mercato, né i beni comuni, né lo Stato.

La pianificazione territoriale distributiva deve adeguarsi alle persone e ai luoghi e meglio potrebbe funzionare se riuscisse a combinare mercato, beni comuni e Stato per soddisfare i bisogni delle persone.*

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2. Chi crea il nostro denaro?

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Perché i sistemi commerciali complessi possano funzionare è necessario qualche forma di denaro. Il valore del denaro non è una realtà materiale ma un concetto mentale.

Come siamo siamo arrivati a usare comunemente questo strumento?**

Il motivo è la fiducia. Il denaro è un sistema di mutua fiducia, di relazione sociale riconosciuto a livello collettivo.

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Il denaro che conosciamo, qualunque sia la sua valuta (dollari , euro o yen) ha una sola identità mentre invece esistono molte altre forme possibili e in base a come viene creato e al ruolo che gli viene assegnato, determina forti conseguenze sulla sua distribuzione.

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Tuttavia il progetto del denaro – come viene creato, quale significato gli viene dato e come viene usato – ha pesanti implicazioni sulla sua stessa distribuzione.

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La creazione di denaro che conosciamo noi è da attribuirsi alle banche commerciali che offrono prestiti o linee di credito che vengono per lo più utilizzati per investimenti: per esempio acquisto di beni quali case, terreni e prodotti di tipo finanziario come titoli o azioni.

Questo modello di investimenti non genera una nuova ricchezza da cui trarre una fonte di reddito ma punta su una rendita derivante dall’aumento di valore del bene stesso.*

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Solo una bassa quota di prestiti è collocata per lo sviluppo delle imprese produttive di piccole dimensioni.

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L’attuale macroeconomia ignora i ruoli che la rendita, il debito e il settore finanziario giocano nel plasmare la nostra economia.*

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Occorre dunque riprogettare il ruolo del denaro che deve coinvolgere lo Stato, i beni comuni e il mercato e trasformare questa sorta di “monocultura monetaria” in un ecosistema finanziario.

Contando sull’esperienza storica della Grande Depressione degli anni Trenta e del  crollo finanziario del 2008, le banche centrali dovrebbero riprendersi il potere di creare denaro e trasferirlo alle banche commerciali dietro garanzia di riserve pari al 100% dei prestiti che concedono. Questa procedura preverrebbe il nascere di bolle finanziarie che arrecano enormi danni sociali ed economici.

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Le banche statali inoltre potrebbero concedere prestiti a tassi di interesse agevolati per famiglie svantaggiate e promuovere progetti di infrastrutture verdi e sociali come sistemi per l’energia rinnovabile comunitari e accelerare la trasformazione tanto necessaria.

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Cosa possono fare i beni comuni per sviluppare il nostro ecosistema finanziario?

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Nel mondo esistono già valute complementari alla moneta nazionale ufficiale. In un’ottica di resilienza si possono trovare nuovi modi di creare denaro: una nuova moneta serve a dare una spinta all’economia locale, rafforzare il tessuto sociale, generare equità nella comunità e pagare lavori che non verrebbero retribuiti.

Una propria moneta locale, già sperimentata da anni in alcuni luoghi nel mondo, consiste nel creare un network composto dai commercianti all’interno di una comunità: ognuno di loro si impegna a comprare e vendere beni e servizi nel circuito nel network.

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Un’altra forma di moneta è “il tempo”: è su questo principio che nascono le Banche del tempo in cui ci si scambiano competenze, saperi e attività usando come misura di valore il proprio tempo.

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Le banche del tempo possono avere numerose finalità. In una ricca città svizzera è sta creata una banca del tempo in cui i cittadini over60 che vi partecipano accumulano crediti di tempo di cura aiutando i residenti anziani a svolgere piccole mansioni come fare la spesa cucinare e facendo loro compagnia. Tutto questo tempo dedicato agli altri costituisce una sorta di “pensione sotto forma di  tempo” di cui si potrà usufruire per le proprie future necessità.

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Rimane il dubbio che simili soluzioni  sviliscano l’istinto umano a prendersi cura degli altri senza condizioni perché, anche se in modo intrinseco, si basano su una ricompensa anche se non è il denaro vero e proprio.

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Con la tecnologia inoltre stanno emergendo nuove monete complementari – le criptovalute ** , Con  l’invenzione di blockchain (catena a blocchi), una piattaforma digitale decentralizzata peer-to-peer che consente di tenere traccia di tutte le forme di valori che vengono scambiate tra le persone nel network. 

Una moneta che usa la tecnologia di blockchain è Ethereum** che ha attivato micro-reti per lo scambio al suo interno, di energia rinnovabile.

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Questi sono solo esempi di riprogettazione della moneta che riguardano il mercato, beni comuni e lo Stato. È un invito a riconoscere il fatto che il modo in cui il denaro viene progettato – la sua creazione, il suo ruolo ha conseguenze sulla sua distribuzione. Occorre dunque mettere al centro di un nuovo ecosistema finanziario, il potenziale della progettazione distributiva.

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Seguici per scoprire le altre tre aree coinvolte nella progettazione distributiva.

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Legenda relativa ai link:

* fonte citata nel libro “Economia della Ciambella”

** approfondimento suggerito da Culturaintour

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